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Scorciatoie in avanti e balzi all’indietro

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Negli scorsi giorni una dichiarazione di Gentiloni è passata sottotraccia rispetto al suo peso specifico. In Svezia per un meeting Ue il premier, parlando della situazione economica in Italia, ha affermato che nonostante la qualità dei posti di lavoro, quelli creati dal governo sono oltre un milione in tre anni e che sempre di crescita economica si tratta.

 

Con il discorso della qualità si faceva un evidente riferimento alla temporaneità, alla precarietà e allo sfruttamento che contraddistinguono i rapporti lavorativi. In breve, Gentiloni ha sancito lo scollamento tra una concezione positiva dello stato dell’economia che è quella delle aziende che accumulano utili sul lavoro precario, ed una negativa che è quella vissuta dalla forza-lavoro. Le istituzioni ovviamente, si schierano e lavorano nel campo degli interessi delle prime, definiti di carattere generale. L’onestà stupefacente di un discorso così classista è passata sotto silenzio, a conferma della durezza dei nostri in termini di egemonia politica del capitale sulla forza-lavoro e di una certa tenuta dei livelli di accettazione sociale complessivi.

Eppure le parole di Gentiloni non sono isolate al caso italiano, ma risuonano in quanto succede Oltralpe. Sia in Francia dove Macron prosegue a mietere vittime una volta placato il ciclo di lotte contro la Loi Travail, sia in Germania dove la Merkel non ha trovato un accordo sul nuovo governo anche per l’opposizione di alcune forze politiche a progetti di liberalizzazione totale degli orari di lavoro. Su scala europea il capitale denazionalizza sempre di più i flussi dell’economia, imponendo le sue logiche su scala sovranazionale in maniera ancora più accelerata e riprendendo la sua marcia speculativa e distruttrice di diritti.

Non a caso tornano ad agitarsi letterine di raccomandazioni di Bruxelles sui conti pubblici, proprio mentre si entra in campagna elettorale e il governo cerca di guadagnare voti con qualche mancetta cosmetica stile reddito di inclusione. Nemmeno quella va concessa, per quanto si parli di briciole. Il governo, di conseguenza, conscio di dover tirare i remi in barca sui temi reali continua invece a teatralizzare la sovranità dove ancora il capitale globale gli permette di esercitarla, ovvero sulla gestione dei confini, sempre più assassina come vediamo dall’aggravarsi delle condizioni dei migranti nei campi di concentramento Minniti-made in Libia.

Tornando al teatrino della politica, i fatti tedeschi – con i partiti del paese guida dell’Unione Europea incapaci di trovare un accordo per formare un governo – ci pongono di fronte un nodo centrale di questi tempi, ovvero la direzione divergente tra sovranità politica nazionale e processi di governo sempre più globali. La crescente disaffezione del corpo elettorale verso il suo rito civile legittima sempre meno il giochino delle elezioni, ormai palesemente non in grado di incidere sulle condizioni di vita. Nonostante questo il rito continua a costruire i suoi simulacri, sempre più riconosciuti come tali, sempre meno credibili e legittimati socialmente.

Stando agli attuali sondaggi elettorali rispetto all’Italia, qualunque sia la coalizione che vincerà, nessuna di esse avrà i numeri, a meno di particolari avvenimenti ora non prevedibili, per governare da sola. Ergo le alternative diventerebbero nell’ordine: una grande coalizione con PD e Fi che si staccano dalle loro “ali estreme”; un governo di minoranza; nuove elezioni. Ognuno di questi scenari fa emergere una realtà per la quale quello che ci troveremo davanti sarà senza dubbio un periodo di instabilità.

Sappiamo però che purtroppo instabilità istituzionale non vuol dire ingovernabilità e spazio di azione per i movimenti. Può invece voler dire una ulteriore possibilità per il governo sovranazionale del capitale di fare passare le sue volontà e le sue letterine, senza neanche una finta opposizione di governo, in una ulteriore divaricazione tra la sovranità reale e la democrazia sempre più fittizia. Uno scenario che permette a tutti i novelli Ponzio Pilato di lavarsi le mani e di proseguire il loro ruolo di marionette. Lo stesso campo della “opposizione” viene rappresentata da partiti che di fatto non hanno la funzione sistemica di dover governare, come i CinqueStelle o la Lega Nord, ma solo quella di incanalare il dissenso in forme compatibili con la tenuta dell’ordine sovranazionale. I viaggi americani di DiMaio lo dimostrano in maniera chiara, cosi come gli strepiti di Salvini.

In questo scenario, il problema per noi si crea allora nella forma dell’incapacità di emergere come proposta alternativa nei territori sociali ai margini dei centri di potere, dove l’astensionismo aumenta in maniera enorme ma non si accompagna all’azione politica nel senso della rottura. Nel fare emergere che solo da una costruzione di rete a partire dai conflitti sociali si può dare una svolta positiva alle condizioni di vita dei marginali, che oltre alla sofferenza devono difendersi anche da DASPO urbani se non mantengono anche un atteggiamento decoroso nel soffrire. Nel dare una declinazione politica dal basso dell’ingovernabilità, che è valore solo se agita dal basso e non dall’alto.

Un problema reale, che non può essere a nostro avviso bypassato attraverso scorciatoie che rischiano di nascondere i problemi sotto il tappeto, piuttosto di affrontarli nella durezza che esprimono. Gli esempi che arrivano dalla tragica fine del progetto di Tsipras in Grecia e ai disastrosi equilibrismi di Podemos rispetto alla questione catalana, per citare solo i casi più significativi, ci permettono di vedere che in questa fase il tema è come ricostruire un discorso egemonico all’interno della società, a partire dall’azione del basso, nel vuoto di legittimazione della rappresentanza istituzionale che deriva dai profondi limiti alle sue possibilità di azione. E se alcuni esperimenti di costruzione di rete su scala locale possono avere avuto anche un discreto successo, immaginarsi una tendenza simile su scala nazionale è quantomeno avventurista, nonchè mancante di uno sguardo complessivo sulla realtà del paese. C’è ancora tanto lavoro da fare.

Quanto avvenuto ad Ostia ci parla non solo della presenza di intrecci tra formazioni neofasciste e mafiose su alcuni territori, come da narrazione interessata del mainstream alla ricerca dello scoop che è scoperta dell’acqua calda. Ma anche dell’assoluta non-presenza di compagni e compagne attivi nel sociale, della crisi nello stesso riconoscimento del “noi”, dell’assoluta mancanza di percorsi reali di alternativa, che non si costruiscono dall’oggi al domani. Per noi questo è il vero nodo della fase attuale, la cifra che la descrive.

Di fronte a questo scenario, che si riproduce quasi in ogni periferia sociale del paese, proporsi interni allo schema elettorale in un contesto di crescente e montante disaffezione verso quella forma rischia di scavare un solco oppure di accorciarlo? Probabilmente, la seconda. Tenendo presente che anche dove il voto è stato concepito come elemento utile tatticamente, come nel referendum catalano, sono state le barricate contro la Guardia Civil di Rajoy ad averlo reso elemento dirompente. E non a caso è stato nello scenario del referendum veneto che abbiamo avuto uno dei tassi di partecipazione elettorale più alti degli ultimi tempi: posta in gioco era più l’allontanamento dallo Stato che la sua riconquista, in una narrazione che ha convinto poichè giocata sul riappropriarsi di elementi di decisionalità e basata su una critica profonda delle istituzioni centrali, aldilà della declinazione specifica proposta da Zaia.

Mettere il popolo al potere è poi proposizione fin troppo generica se non ci si chiede inanzitutto da chi sia composto il popolo, concetto tralaltro ben lungi dal soddisfare le nostre esigenze al giorno d’oggi e che anzi possiede controindicazioni decisamente pregnanti. Dato che ogni costruzione di popolo delinea inclusi ed esclusi, appartenenti ad esso ed elementi ad esso estranei, la domanda da porsi se affrontata in questi termini è piuttosto “Chi fa parte del nostro popolo oggi?” e se una generica “cittadinanza” possa essere il nostro soggetto di riferimento.

Vi sono compresi gli occupanti di case e i lavoratori della logistica esclusi dalle forme anche minime di partecipazione come il voto? Vi sono i tanti e le tante che hanno compreso, in questa era dove non è certo raccogliere informazioni il problema, che i margini di azione dall’interno delle istituzioni dello Stato sono sempre più esigui, come raccontavamo sopra? Ci sono gli studenti medi che si dibattono tra un percorso di alternanza scuola-lavoro e una consegna per JustEat? Ci sono i soggetti sociali delle periferie che non si attendono dal voto ormai neanche una minima evoluzione positiva delle proprie vite? Se non si affrontano queste domande, è probabile che ci ritroveremo ancora meno pronti di prima ad affrontare i prossimi mesi ed anni.

 

 

 

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