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L’incredibile traversata

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Riflessioni conclusive della Delegazione italiana a Maxmur e nella Federazione democratica della Siria del Nord.

Quando siamo partiti avevamo chiaro il nostro obbiettivo di conoscere, far conoscere e portare solidarietà alla rivoluzione confederale nella Siria del Nord e all’esperienza rivoluzionaria nel campo profughi di Maxmur, nel Kurdistan iracheno. Eppure non immaginavamo quello che ci avrebbe aspettato nel tempo che abbiamo trascorso in questi paesi né quanto ci avrebbe fatto riflettere su noi stessi, militanti autonomi in Italia.

Veniamo da un paese che non conosce guerre da oltre settant’anni e non è stata immediata la comprensione di un fatto che laggiù è parte fondante della vita sociale. Per l’esistenza di questa rivoluzione, per aver avuto la possibilità di conoscerla, dobbiamo in primo luogo essere grati alle migliaia di şehid, i martiri della rivoluzione, il cui sacrificio negli anni ne ha garantito la realizzazione e la difesa. Gli e le şehid hanno dato la loro vita e senza di loro probabilmente oggi staremmo parlando di un esperimento distrutto in partenza, magari schiacciato dalla brutalità dell’ISIS, del regime siriano o turco.

Nel moderno scontro militare, politico ed economico globale, la possibilità di una transizione rivoluzionaria si regge su due cardini principali.
Uno è la capacità di inserirsi tra le contraddizioni delle potenze imperialiste, globali e regionali, ricavando lo spazio politico per la realizzazione del proprio progetto senza essere schiacciati da alleati invadenti o nemici aggressivi. Così la rivoluzione ha saputo avvantaggiarsi dell’alleanza con gli Stati Uniti, dialogare con la Russia per fare pressioni sul regime di Assad, difendersi dalla minaccia della Turchia e sconfiggere l’ISIS.
L’altro elemento è la capacità di far avanzare contemporaneamente il processo rivoluzionario grazie al radicamento tanto delle sue strutture organizzative quanto dei suoi principi nella società e nella vita delle persone. Questa capacità può esistere grazie a un costante lavoro sulle contraddizioni sociali e politiche, non è statica né standardizzata.

Questi elementi di sapere rivoluzionario oggi presenti da Kobane a Raqqa non vengono dal nulla. Hanno una storia che è una storia di lotte e conflitti durissimi, giocati spesso fuori dalla Siria. Una di queste storie è quella, incredibile, dei profughi rivoluzionari di Maxmur, nell’Iraq settentrionale, che una parte della nostra delegazione ha visitato. Se consideriamo la rivoluzione confederale della Siria del Nord come un fiume in piena, il campo profughi Sheid Rustem Cudi – questo il suo nome – è come un lago.

È un’esperienza più che ventennale di sviluppo di un’organizzazione sociale basata sull’autodeterminazione della popolazione strutturata in comuni, cooperative e movimenti, che è potuto sopravvivere in un territorio ostile grazie all’autodifesa e al sacrificio di tantissimi sheid. È la prova che il coraggio, il duro lavoro quotidiano e il continuo processo di messa in discussione dell’individuo nella collettività e di cambiamento delle relazioni sociali possono raggiungere risultati eccezionali. Tra questi la centralità della politica e delle pratiche rivoluzionarie nella vita quotidiana, dei bambini come degli anziani, e il profondo cambiamento del ruolo delle donne.

I frutti di un processo di lunga durata, per quanto importanti, non portano però a vedere il processo come completo. Infatti tutti gli aspetti dell’organizzazione sociale sono sempre messi a verifica e modificati da un percorso democratico permanente perché nessun risultato può essere statico. Il lago non è uno stagno: nella vita della città è ben presente la necessità universale della rivoluzione e lo sguardo, in particolare delle migliaia di giovani donne e uomini nati e cresciuti in questo contesto “speciale”, in Iraq, è sempre rivolto anche fuori, a partire dal sostegno diretto della rivoluzione nella Siria del Nord.

Attraverso quali concetti i militanti rivoluzionari dell’Iraq e della Siria interpretano e trasformano la realtà in cui vivono? Quale metodo permette ciò? Nell’incontro con la rivoluzione e i rivoluzionari di questi paesi molto diversi dal nostro, con una storia e cultura diverse, abbiamo cercato di capire quali fossero le caratteristiche che, astratte dal particolare contesto, costituiscano delle invarianze riscontrabili altrove. Non è un vezzo teorico che vogliamo coltivare, né una cieca trasposizione, ma una riflessione sulla possibilità di poter incidere nei processi in atto nella nostra parte di mondo, sempre visti alla luce della loro globale interconnessione. Quello che più ci ha colpiti è aver ritrovato, sotto differenti forme, un metodo e degli strumenti teorici molto simili a quelli di cui spesso discutiamo e mettiamo in pratica nelle nostre lotte, ma con molta più difficoltà rendiamo vettori di cambiamento sociale su una scala così grande.

Hevalti

La forza motrice di questa rivoluzione è l’hevalti, ovvero ciò che provvisoriamente proviamo a tradurre come amicizia politica. Questo è ciò che dà senso e forza alla proposta politica del confederalismo democratico quanto alle relazioni che si intessono tra i singoli militanti e i contesti sociali in questa rivoluzione. Essere heval non è traducibile come essere compagni, perché questa parola nell’attuale uso comune ha un significato escludente sulla base dell’adesione alla dottrina di questa o quella area politica, in una relazione che implica una competizione finalizzata a interessi che non guardano all’avanzamento del conflitto contro l’aggressione capitalista.

Hevalti ha un senso di legame universalistico verso qualunque identità individuale o collettiva, linguistica, politica o geografica, eppure caratterizzato da un’identità ben precisa: quella legata alla scelta partigiana di percorrere una parte del cammino comune verso una società libera, autodeterminata e autodifesa. Non è per partito preso che si riconoscono gli amici, anche se mai visti prima, ma dall’impegno a risolvere i problemi comuni, sia quelli della quotidianità sia quelli sociali. Questo fornisce un potente strumento all’azione politica anche in contesti ambigui e confusi. Si tratta di costruire dimensioni collettive su tutti i livelli della società e di creare legami sulla base di principi etici condivisi, mantenendo però le differenze e mettendole a disposizione di un lavoro politico comune. Questo indica la strada per modificare la società e rafforzare le potenzialità di opposizione al dominio capitalistico.

Nel pensiero di questa rivoluzione il ruolo di avanguardia contro il sistema capitalistico non è circoscritto a settori di classe più o meno conflittuali. Ciò a cui viene dato il valore maggiore è la scelta di prendere parte, l’adesione soggettiva a un progetto di stravolgimento dell’organizzazione sociale esistente, la messa di discussione come individuo nel processo collettivo, il lavoro quotidiano per costruire una società nuova; possibilità che, in fin dei conti, è sempre possibile per ciascuno. Infatti il sistema capitalistico sfrutta e aliena tutti gli esseri umani, sebbene con forme e livelli di privilegio differenti, e ovunque si esprimono forme di sofferenza, insofferenza e opposizione.

Se l’aspetto soggettivo diventa così centrale allora il primo terreno di lavoro è quello di costruire “persone nuove”, tramite un continuo lavoro collettivo sulla personalità di ciascuno nel processo di critica e autocritica, per svilupparne i tratti portatori di un nuovo modo di vivere sociale, primo fra tutti quello dell’hevalti, e superare quelli prodotti e funzionali a riprodurre la logica capitalistica. Questa rivoluzione si fonda sulla convinzione che ogni aspetto della vita personale e sociale sia politico e il cambiamento debba darsi a partire da tutti gli ambiti pratici della vita quotidiana, perché la liberazione della società non è possibile senza la liberazione di ogni persona e soprattutto di ogni donna. La libertà non esiste se non è collettiva e questo vale in tutte le comunità, dalla famiglia alla società intera.

Autonomia delle donne

L’idea della necessità dell’autonomia delle donne è prodotto di un processo dialettico durato per anni all’interno del movimento parallelamente alla quale si è sviluppata la jineoloji, la scienza delle donne. Il potere patriarcale è una delle basi su cui si è costruito lo sfruttamento capitalistico e le donne sono state «la prima colonia» dell’oppressione originaria su cui si sono fondate le successive, sino al culmine di quella capitalista. È necessario rompere la violenza quotidiana in famiglia, nelle relazioni (anche quelle tra militanti) e arrivare fino alle radici di questo meccanismo, risalire fino ai vertici per ribaltare i livelli di violenza che dall’alto strutturano la vita sociale. Questo ribaltamento non è un qualcosa che viene rimandato ma è il cardine della rivoluzione, il più difficile ma il più potente.

In questa rivoluzione, autonomia delle donne non significa indipendenza e separazione, ma costruzione di un’alterità che è avanguardia e che lavora insieme agli uomini per raggiungere un obbiettivo comune. Un aspetto centrale è quello della dialettica con l’uomo non basata sull’aspirazione a raggiungere uno status di uguaglianza formale o una differenza autoreferenziale. È un rapporto in continua evoluzione in cui l’identità di genere viene costruita e ri-costruita dalle donne sulla base di propri principi e pratiche. L’autonomia in campo politico, militare e organizzativo permette la costruzione di un’identità e un pensiero che sia da stimolo e crescita per l’umanità e per gli uomini. Quando cambia la donna cambia anche la società, la cultura e la sua trasmissione – ovvero la formazione. Senza questa base non è possibile una trasformazione che non sia sussumibile.

Su queste basi viene portata avanti anche una critica all’evoluzione dei femminismi occidentali: frammentati, riassorbiti dalla struttura capitalista e eurocentrica. La loro potenza rivoluzionaria è stata lasciata a una valorizzazione capitalistica, e da questo bisogna ripartire per non lasciare al nemico il cardine della propria liberazione.

Perwerde: la formazione

La personalità, o soggettività, è quindi il terreno di scontro tanto per il sistema capitalistico e le sue istanze quanto per i rivoluzionari e i loro propositi. Infatti lo stato e il dominio si fondano prima di tutto sulla riproduzione di una soggettività a loro funzionale, perciò è necessario condurre uno scontro per trasfigurarla in un nuovo modo di pensare, vedere il mondo e avere relazioni sociali. Lo studio oggettivo del funzionamento materiale del sistema capitalistico è in secondo piano rispetto allo studio delle personalità e soggettività che esso plasma, perché in queste viene riflessa la realtà dell’oppressione, tanto nei punti di forza quanto nei suoi punti di debolezza, da cui è necessario liberarsi collettivamente. Il portato storico e culturale della società che si riflette in ciascuno e nelle relazioni è parte centrale di questo campo di contesa: lo studio e la conoscenza sono quindi uno strumento indispensabile. Abdullah Öcalan ha fatto dell’analisi degli esempi di vita individuale, e in particolare dei militanti, un metodo per conoscere e parlare di tutta la società e delle sue contraddizioni.

La formazione pervade ogni aspetto di questa rivoluzione, corsi e seminari soprattutto per chi ricopre incarichi nel sistema confederale (e per gli insegnanti), ma anche nella vita quotidiana tramite l’esempio dei militanti. Non si tratta di una formazione a senso unico, così come i militanti hanno il ruolo di formatori della società anche l’inverso è vero: mostrano una tensione continua a raccogliere i problemi, le critiche e le necessità, saggiando di volta in volta come la soggettività collettiva si stia trasformando, per modificare di conseguenza il proprio lavoro quotidiano, la propria organizzazione fino a ridiscutere il metodo. La rivoluzione non segue dei passi prestabiliti a priori dall’esterno, ma un processo di trasformazione continuo. I militanti ne sono la forza trainante sempre connessa con la società in un rapporto di reciprocità affinché il cammino sia comune. Grazie alla formazione e alla presa di responsabilità della società che si autodetermina, la rivoluzione si difende dal rischio di essere recuperata dal sistema capitalistico o distrutta dalle diverse forme della repressione.

E adesso?

Tornati da questa esperienza, non cadremo nel tranello di confondere l’amicizia rivoluzionaria e la lotta globale con un attivismo puramente rivolto a ciò che vive lontano da noi, magari come scorciatoia per non affrontare le nostre difficoltà e i nostri compiti sui nostri territori. Vogliamo fare la rivoluzione in Europa. Questo obiettivo è oggi estremamente difficile, come complesso è comprendere come articolare e direzionare un simile desiderio. Se già eravamo convinti che fosse possibile, le riflessioni condivise in Siria ci hanno reso ancor più palese che non esistono propriamente contesti “facili” o “difficili”, se è vero che nessuno si sarebbe aspettato un richiamo all’attualità della rivoluzione proprio dal Medio oriente. Esistono contesti diversi, e ciascuno ha la sua chiave e le sue lingue, ognuno può essere penetrato da energie organizzate e consapevoli se si riesce a comprendere quali ne siano le potenzialità, uniche e irripetibili; se riusciamo a conoscere anche l’Europa – noi stessi.

Il peggior torto che potremmo fare alle compagne e ai compagni che in Medio Oriente e in Kurdistan si battono per la rivoluzione sarebbe trasferire sul loro campo tutte le nostre energie, quando la liberazione del mondo necessita della costruzione di conflitti sociali e prospettive concrete ovunque. L’Italia e l’Europa continueranno a essere il nostro campo di battaglia. Resteremo fedeli al patto che sempre è esistito tra le compagne e i compagni di tutto il mondo: il nemico è uno ed è planetario, e ogni passo verso la sua distruzione è di per sé un gesto di amicizia che valica ogni confine. Ciò non vuol dire che il supporto reciproco tra Italia e Siria, tra Europa e Medio oriente, tra movimenti mondiali e Kurdistan non sia fondamentale: né consideriamo il viaggio che al momento abbiamo concluso un’esperienza conclusa. Altre dovranno seguirne, anzi – molte di più – e non soltanto da parte nostra; poiché lo scambio non può e non deve interrompersi, e perché, isolata, ogni rivoluzione muore; e se muore la rivoluzione in atto, tutto diviene più difficile per quelle che sono – o vogliono diventare – potenza.

 

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