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“Heval, la rivoluzione è lunga”: una lettera da Jacopo dalla Siria del Nord

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Dalla pagina FB di Jacopo, giovane torinese che si trova in Kurdistan dove è stato testimone dell’invasione di Afrin da parte dell’esercito turco.

La resistenza di Afrin non è finita. C’è la popolazione, strappata alla propria terra, che vuole tornare libera a casa propria. C’è la guerriglia contro l’occupazione. Continua la resistenza per difendere la rivoluzione tutta, perché c’è il rischio concreto di un’invasione dell’esercito turco e dei jihadisti di tutta la Federazione della Siria del Nord. Proprio adesso che alzano di nuovo la voce in coro i pescecani che dai loro ricchi palazzi e summit circondati dal lusso, con la leggerezza di qualche parola, distruggono milioni di vite umane, inceneriscono corpi, spappolano arti, sventrano bambini. Inoltre, c’è il lavoro quotidiano per difendere e costruire la rivoluzione nella società e nella sua mentalità, senza pause, perché anche nei momenti più difficile non vorremmo fare niente di diverso.

Durante il processo di evacuazione, allontanarsi da Afrin è stato duro. Mi ha lasciato sensazioni contrastanti che mi lacerano da settimane. Eppure lontano dai bombardamenti continui, dall’assedio in città, dalla realtà quotidiana della guerra, un periodo di relativa tranquillità favorisce alcune riflessioni. Non mi presto spesso alla condivisione di pensieri e sentimenti strettamente personali, tanto meno nelle diverse interviste per giornali o televisioni che mi è capitato di rilasciare.

«Cosa ti ha portato lì? Che cosa hai imparato? Avevi paura? Perché senti questa rivoluzione anche come la tua?». Domande di questo tipo in dirette da pochi minuti di fronte a un pubblico di sconosciuti. Che cosa posso dirvi? Due mesi e mezzo che mi sembravano una vita, ogni giorno che passava sembra una settimana, un mese. Ma tutti gli eventi rimanevano vividi nella memoria come se fossero successi il giorno prima. Dopo aver fatto i conti con la prospettiva della morte mia, dei miei amici e di centinaia di migliaia di persone; dopo aver affrontato la prospettiva di una resistenza fino all’ultimo in una città assediata dai jihadisti e dal secondo esercito della NATO… Come ve lo spiego? Non sono in grado. Mi sono difeso dietro le motivazioni più impersonali, sebbene valide. È la rivoluzione del nostro secolo, è un esempio che si sta realizzando di una società autorganizzata, in cui cambiano radicalmente le relazioni sociali allontanandosi da quelle capitalistiche e patriarcali. È una speranza per tutti, per questo va difesa. Detta così sembra roba di poco conto.

In realtà le risposte toccano questioni ben più profonde, ma, forse, possono essere capite solo da chi sogna la rivoluzione e si interroga su come trasformare se stesso – la propria personalità, la propria mentalità, le proprie relazioni – per esserne all’altezza.

Infatti non è un’appartenenza oggettiva di classe, di razza, di lingua a renderci più o meno rivoluzionari. Al massimo più o meno inclini a voler trasformare la nostra condizione, ma essere dei rivoluzionari è un’altra cosa. L’adesione alla rivoluzione è prima di tutto soggettiva, una trasformazione della propria personalità. È una lotta prima di tutto con sé stessi e l’eredità di secoli di dominazioni scolpiti nella nostra educazione e nei nostri comportamenti. Le relazioni di potere, sfruttamento e oppressione sono fondate su una mentalità che le costruisce, le accetta e le rafforza. Solo in un secondo momento si incarnano nell’oggettività del ricatto salariale, della violenza patriarcale, della polizia o dei carri armati.

Un militante deve essere buon organizzatore, agitatore, sapersi assumere compiti e responsabilità. Tuttavia se ci concentrassimo solo su queste caratteristiche ci chiuderemmo in una concezione rituale e disumanizzata della politica. Se eliminiamo il lato umano, l’odio per l’ingiustizia, l’empatia per gli oppressi e le loro lotte per la libertà, cosa rimane di noi? Avremmo sempre la scusa, mascherata da razionalità, per prendere le distanze, non agire e tirarci indietro di fronte alla necessità di affrontare il comune nemico. Saremo sempre in grado di stabilire un nuovo limite oltre il quale potremmo rimanere indifferenti alle lotte e alle sofferenze dei nostri simili, fino al punto da interessarci solo alla nostra sopravvivenza.

Sulla nostra personalità, che vorremmo rivoluzionaria, la lotta è continua. Ho avuto paura? Si, è normale. Soprattutto nei momenti più difficili diventa netto lo scontro interiore. E la guerra ti sbatte in faccia senza mediazioni le tue verità – non solo come rivoluzionario, ma come essere umano. Cresce la tentazione di salvarsi individualmente, scegliere la via più comoda, ovvero abbandonare la lotta. Fare un passo indietro, perché alla fine ci si può accontentare di quello che ci viene offerto all’interno del sistema: «Ma perché non sono rimasto tranquillo a casa mia? Perché non me ne vado?» è quello che ho pensato in certi momenti – e sono convinto che anche tanti altri lo abbiamo fatto. Ritirarsi in una vita passata a lavorare per sopravvivere, dormire e trovare svaghi con cui consumare il nostro tempo libero. Vorrebbe dire abbandonare la rivoluzione. Tradire.

Il pensiero corre ai compagni caduti o feriti, quelli con cui ho condiviso i pasti, i letti, il tempo. Quelli che ho conosciuto per pochi attimi sotto gli attacchi dell’invasore o quelli che non ho mai conosciuto, ma da cui sarò per sempre legato dal sogno comune che ci ha spinti a difendere Afrin e la rivoluzione. I ricordi e le emozioni bruciano dentro: “non ho fatto abbastanza. Non sono stato alla loro altezza”. Il sentimento di tradimento – intimo, personale – non è solo verso le nostre idee, ma è soprattutto verso quei compagni che per realizzarle hanno sacrificato la vita.

«Heval, la rivoluzione è lunga. Ci saranno molte altre occasioni ed è dovere di un rivoluzionario fare il possibile per rendersi pronto». Questa forma di tradimento è parte delle vita e della crescita di una personalità rivoluzionaria: ogni volta che si ha un comportamento patriarcale, ogni volta che gli interessi personali danneggiano quelli collettivi, ogni volta che ci fermiamo davanti alla paura, ogni volta che il nostro comportamento non corrisponde alle nostre idee. Nessuno è un rivoluzionario perfetto, perché il viaggio non è mai concluso. Però l’impegno a sviluppare la propria personalità in senso rivoluzionario deve essere il nostro sentire più profondo, il nostro costante punto di riferimento. Rinunciare è il vero tradimento.

Dalla rivoluzione della Siria del Nord

18/04/2018

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