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Le carte scoperte di Wikileaks

 

Si tratta di una scelta forse obbligata dall’evolversi degli eventi degli ultimi mesi, con la necessità di rilegittimare Wikileaks e la figura di Assange agli occhi del grande pubblico dopo un periodo non esattamente felice, ma che può rivelarsi un salto nel buio pieno di incognite.

 

Da una parte, infatti, Wikileaks/Assange rinunciano alla propria tattica principale – ovvero la partnership privilegiata con alcuni grossi centri dell’informazione mondiale quali il Guardian, il New York Times, il Washington Post, lo Spiegel (i quali hanno subito condannato assieme allo stesso Dipartimento di Stato le modalità di diffusione del nuovo leak) ma anche con attori locali (in Italia il media partner di Wikileaks è stato il gruppo Espresso) nella procedura di rilascio delle informazioni confidenziali.

 

Questa fino ad oggi ha sempre avuto una qualche efficacia nel momento in cui l’interazione tra i media mainstream ed il network di Assange produceva dinamiche di spettacolarizzazione. Il che è accaduto sia quando Wikileaks ha provato a calcare eventi di portata storica (si pensi alla rivolta egiziana, o al recente rilascio dei leaks sulla Libia in occasione della caduta del regime di Gheddafi)

che quando il contenuto dei leaks comportava tanto lavoro d’analisi sulle informazioni quanto creazione di un evento giornalistico da parte dei media.

Una dinamica dimostratasi fondamentale per Wikileaks fin dai tempi delle release sulla banca svizzera Julius Bar, ma che ora viene abbandonata. Perché? Le affermazioni di Assange sulla “troppa parzialità” della stampa mondiale sono talmente ovvie da essere ridicole.

 

La verità è che i rapporti di forza tra Wikileaks e grandi testate giornalistiche negli ultimi tempi si sono troppo sbilanciati a vantaggio di queste ultime; le quali hanno cominciato a non rispettare gli accordi (per esempio sui tempi di pubblicazione) decisi di concerto con Assange.

Problemi già verificatisi ai tempi dei “war logs” afghani e ripetutisi nella prima metà del 2011 (Daniel Domscheit Berg – l’ex braccio destro di Assange poi fuoriuscito dall’organizzazione per forti dissidi creatisi con il leader australiano – ne parla molto chiaramente nel suo libro “Inside Wikileaks“); e che confermano il ruolo di guida del gioco (tempi e modi di pubblicazione dei leaks) da parte dei potentati dell’informazione mainstream. Il tutto in barba a quegli sciami di “mandruconi in rete” che poco meno di un anno fa, a ridosso del cablegate o dei war logs afgani, celebravano l’avvento del nuovo mondo e del nuovo giornalismo.

 

Inoltre, negli scorsi mesi, non sono state poche le ombre allungatesi sul brand Wikileaks. Dopo il cablegate l’infrastruttura informatica per l’invio sicuro dei documenti è stata chiusa (per non meglio specificati e mai risolti problemi tecnici), la sicurezza del database dei cable sarebbe stata compromessa dall’inaffidabilità di un giornalista del Guardian, mai si è capito l’impiego effettuato dei numerosi finanziamenti che l’organizzazione aveva ricevuto, mai Assange ha provato a giustificare il perché di somme così ingenti a quanti gliene chiedessero conto. Oltretutto, al di la del processo che ancora pende sulla testa di Assange, a maggio un altro fatto aveva messo in forte contraddizione l’immaginario che circonda Wikileaks. E’ stato reso pubblico che Assange obbligava le new entries dell’organizzazione a firmare accordi legali che imponevano loro il silenzio sulla divulgazione di leaks interni, pena sanzioni economiche salatissime.

 

Con la scelta di affidarsi al crowdsourcing Wikileaks tenta di ridare lustro alla sua immagine agli occhi del grande pubblico tornando allo spirito originario “hacker” – in stile information wants to be free, tanto per capirci – con caratteristiche di maggior apertura e minore intermediazione.

Il fatto che anche alcuni importanti media tradizionali come Al Jazeera stiano sperimentando questa possibilità, e il dipanarsi di esperienze come i Tunileaks (la cui censura da parte del sistema Ammar404 aveva contribuito al propagarsi della rivolta tunisina a gennaio nelle strade ed in rete, anche con l’interesse di Anonymous) sembrano sostenere tale lettura.

 

Ma le domande sono (almeno per ora): adottando una modalità più distribuita di diffusione dell’informazione, il rischio non è quello di disperdere i leaks nel rumore di fondo della rete, con la riduzione della visibilità offerta dalla collaborazione con i grandi media (la quale oltretutto proteggeva, almeno temporaneamente,Wikileaks da ritorsioni certe)? C’è un rischio concreto che, rendendo pubblici i nomi di agenti o informatori sotto copertura, questi finiscano per perdere fiducia nel network di Assange ed abbandonarlo? Anche se l’hacker australiano gioca a carte scoperte, l’esito della partita che sta affrontando è tutto da determinare.

 

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