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Spike Lee fa la cosa (quasi) giusta

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Riceviamo e pubblichiamo una breve recensione dell’ultimo film di Spike Lee, “BlacKKKlansman”.

Che il cinema Hollywoodiano non goda di ottima salute è cosa ormai risaputa da tempo, scorrendo la lista dei film usciti e in uscita in questi anni ci accorgiamo che la quantità di remake, reboot e sequel di film usciti magari 30 anni fa è cresciuta e continua a crescere in maniera esponenziale.

Per fortuna, a parte alcune piacevoli sorprese, ci pensano ancora alcuni vecchi cineasti a salvare la situazione proponendo sceneggiature originali messe sullo schermo con bravura e stile ormai rari.

Ancora meno tra di loro sono però quelli che hanno il coraggio di affrontare di petto questioni mai risolte all’interno della storia degli Stati Uniti quali quella razziale, diventata nuovamente attuale con l’elezione di Donald Trump e il riemergere dell’estrema destra americana, dopo la parentesi obamiana, alla quale fin troppi intellettuali liberal avevano abboccato credendo in un avvenuto cambiamento sociale all’interno della società americana.

Se già l’anno scorso con Detroit di Kathryn Bigelow abbiamo avuto il primo tentativo (perfettamente riuscito) di film “mainstream” che partendo da un fatto storico quale la rivolta dei ghetti neri di Detroit nel 1967 tirava le somme sulla violenza impunita da parte della polizia americana verso la comunità afroamericana, quest’anno è Spike Lee, regista da sempre molto attivo nel raccontare vicende di razzismo ed emarginazione nell’america contemporanea, a voler raccontare, partendo da una vicenda realmente successa, un pezzo di storia che ha il suo immediato riflesso nelle vicende più attuali degli Stati Uniti sotto Trump.

La storia, se vogliamo seguire un immaginario filo conduttore con il film della Bigelow, è ambientata pochi anni dopo la rivolta di Detroit e la stagione della rivendicazione dei diritti civili da parte degli afroamericani, e infatti il protagonista è un giovane nero che per primo riesce a diventare poliziotto in Colorado grazie alle aperture avvenute in seguito alla grande stagione di lotte di fine anni 60.

Il film ruota per la maggior parte intorno al dualismo tra il movimento delle Black Panther, dove il giovane poliziotto viene fatto infiltrare per monitorare la loro attività sovversiva, e quello del Klu Klux Klan che viene invece investigato tramite uno stratagemma dallo stesso poliziotto di colore.

Se quest’ultimo è ben rappresentato, soprattutto nella figura del suo capo David Duke preoccupato più di tenere a freno gli istituti più beceri e violenti della sua base per ottenere potere politico, perfetta trasposizione cinematografica di molti fascisti in doppiopetto ai quali purtroppo siamo abituati, la rappresentazione da parte del regista di Atlanta del movimento delle Black Panther è indubbiamente fuorviante sull’effettivo ruolo storico in quanto nel film vengono rappresentati come una frangia dai toni leggermente più estremisti rispetto a quelli del movimento di Martin Luther King.

Le Pantere Nere nascevano invece in forte contrapposizione con la non violenza propugnata dal predicatore morto nel 1968, basandosi sulla necessità che gli afroamericani reagissero alla violenza della polizia anche con le armi e intendendo il riscatto dei neri americani attraverso un ottica di lotta di classe non solo come istanza di lotte per i diritti civili.

Inoltre il finale del film, con le immagini degli scontri avvenuti lo scorso agosto a Charlottesville dove migliaia di antirazzisti si scontrarono con la polizia per impedire un raduno di suprematisti, uno dei quali si lanciò con la sua macchina contro i manifestanti provocando la morte di una ragazza, tradisce ancora una volta la volontà non violenta e prettamente anti Trump del regista, quando sarebbe stato molto meglio rispolverare la rivolta di Ferguson e le varie giornate di lotta degli ultimi anni da parte della comunità afroamericana.

Insomma un’occasione colta solo in parte da parte di Lee, nonostante l’ottimo impianto filmico e recitativo ed il già citato coraggio di investire sul racconto di una storia ambientata in un periodo di alta tensione per il paese americano.

Meno riuscita invece la messa in scena di quello che forse è stato il più importante ed avanzato movimento di rivendicazione da parte dei neri negli Stati Uniti, avendo il regista convergere sui binari della più banale dicotomia filmica “buoni, disarmati e non violenti”, e “cattivi, armati e violenti”, dimenticando che l’odio quando è spinto da un sano spirito di rivalsa sociale è pienamente giustificato.

Citando una frase da un vecchio film del regista: Se ti amo, ti amo. Se ti odio… Hai capito fratello?

Kowalski

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