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“Il sale della terra” di Wim Wenders

Il film inizia con la voce narrante di Wenders che definisce il termine ‘fotografo’ a partire dalle sue origini etimologiche: colui che disegna con la luce. Il bianco e nero di Salgado – non ci sono nella sua opera scatti a colori – proprio di questo parla: del disegno con la luce bianca, che contiene tutti i colori, sul buio che ne è la semplice assenza. E’ un contrasto che ci parla simbolicamente di una lotta eterna, e sa farlo attraverso ovvero la forma di comunicazione più potente e attuale, ma anche attraverso il filtro dell’arte e della bellezza. Salgado, che viene seguito nel racconto della sua vita attraverso le sue foto, ci descrive con brevi commenti le impressioni e il contesto in cui le ha scattate. Fotografa l’inferno delle miniere d’oro in Brasile, i genocidi e le carestie africani, ma anche gli operai e i tecnici canadesi che si occuparono di spegnere i pozzi petroliferi incendiati in Kuwait, ripresi con le loro tute lucide, completamente imbevute di petrolio, davanti a sfondi scuri di fumo o a esplosioni immani; ci dice Salgado, ‘avevano una regola ferrea: ogni sera ripulire con cura il camion’.

Si parla dell’umanità tutta sin dal titolo, che riprende il Vangelo nel ‘Discorso della Montagna’, nel quale Gesù dice ai discepoli: “Voi siete il sale della terra…siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa…”; ma nel film non si parla di religione, tranne che per mostrare al mondo i risultati nefasti delle guerre religiose.

Anzi: l’incrocio tra Salgado e Wenders raddoppia la potenza di fuoco nel fornire una visione lucida, universale, non schiacciata sul presente o velata da appigli all’irrazionalità; ci viene mostrato come l’uomo sia ‘un animale aggressivo e crudele’, e come lo stesso Salgado, ad un certo punto della sua vita, non riesca più a sopportare la consapevolezza di tutto quanto visto e denunciato. E sembra dirci che la speranza non risiede nelle illusioni, ma nel saper distogliere l’occhio e ampliare la vista, uscendo dal recinto che l’uomo stesso si è creato col suo complesso di superiorità, un recinto nel quale gli uomini sono pronti (o costretti) a sbranarsi.

La via d’uscita è lì a portata di mano, la mano di un rettile delle Galapagos, così simile alla nostra, così chiaramente esplicativa delle leggi dell’evoluzione di Darwin (e sentir citare Darwin, in un punto cruciale della narrazione, al posto di chissà quale conforto religioso, è pura gioia per i neuroni). La salvezza, se c’è, è nel recupero di un rapporto naturale col pianeta e con le sue leggi, così come fanno, prima o poi, o come hanno fatto tutte le altre specie.

E così nell’ultima parte della sua vita Salgado fotografa animali, paesaggi, popolazioni primitive ancora in equilibrio con l’ambiente in cui vivono, ed è pura magia; la luce che a questo le sue foto emanano è accecante; in molti gli hanno chiesto, dice lui, come mai dopo una vita di denuncia si sia messo a fotografare animali e paesaggi’ e la sua risposta, semplice, è ‘prima o poi devo imparare a farlo’.

Il genio di Wenders è quello di fornire, con la narrazione, la quarta dimensione al lavoro di Salgado, ovvero lo scorrere del tempo, lo stratificarsi delle esperienze e dei significati; e anzi lo utilizza per svolgere e far svolgere allo spettatore un percorso che ci ricorda Dante nella sua Divina Commedia: si parte dall’inferno delle miniere d’oro in Brasile, si subisce un purgatorio di immagini agghiaccianti sui massacri in Ruanda (e altrove), per arrivare insieme al fotografo, dopo sofferenza e crisi, ad avere i mezzi per contemplare il paradiso, che qui è luce, equilibrio e armonia tra le forme di vita. E’ un Eden, quello rappresentato in Genesis, l’ultima raccolta fotografica di Salgado, nel quale donne e uomini non si vergognano di stare nudi, come nella popolazione amazzonica Zo’è, nel quale vige la poligamia per entrambi i sessi.

Il consiglio è di vedere questo capolavoro, e di consigliarlo ad altri. C’e da diffondere l’invito a godersi un esempio di luce che vince sul buio dell’irrazionalità, in questo mese in cui il pianeta arranca verso il Natale e i suoi inesorabili cinepanettoni.

di Francesca Finocchiaro

da SenzaSoste

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