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Le 7 squadre più socialiste della storia del calcio

Pubblichiamo un bell’articolo di Crampi Sportivi capace di guardare con la giusta serietà e la giusta ironia al mondo del pallone.

Calcio e socialismo: un rapporto pretestuoso. Eppure ci sono state, nella storia del pallone, squadre che hanno saputo incarnare anche solo per un breve momento  l’essenza squisitamente minoritaria del pensiero socialista, sostituendo gli scarpini ai più classici strumenti della classe operaia. Noi di Crampi Sportivi ci siamo divertiti a stilare una classifica delle sette squadre che, per un motivo o per un altro, avrebbero fatto la gioia delle più grandi menti della storia della sinistra mondiale, tipo Massimo D’Alema.

7. Fc Barcelona, quelli “che hanno fatto i soldi”.

Socialisti per velleità, e per contrapposizione.

Un po’ per il forte attaccamento popolare che ha sempre contraddistinto la tifoseria blaugrana, un po’ perché eterno rivale di un Real Madrid galàctico e milionario, il Barça si guadagna una menzione speciale in questa classifica anacronistica. Al di là delle accuse rivolte alle merengues di essere stati i cocchi del Caudillo durante il franchismo (accuse sempre prontamente respinte dai diretti interessati), il club catalano presenta evidenti velleità socialiste perché storicamente punta forte sul collettivo, specie in fase offensiva (spesso gioca sin nueve), cresce i suoi talenti in casa – Messi, il giocatore più forte del mondo, è il tipo di enfànt prodige per il quale qualsiasi propaganda sovietica avrebbe fatto carte false – e gli insegna a mettere la squadra prima di ogni cosa. Tutto questo mentre il Real, bieco cacciatore dei massimi talenti sul mercato, sperpera cifre assurde per accaparrarsi campioni già affermati, e spesso è costretto ad assecondarne i capricci. Il metodo socialista di stampo migliorista ha dunque funzionato, e ha portato il club – anzi, Més que un clùb, a testimoniare il tipo di propaganda romantico-iperbolica tipica di una certa sinistra – a diventare non solo la squadra più forte del mondo, con risultati da record, ma anche una delle più amate del mondo, raccogliendo tifosi da tutti i continenti in nome della collettività, dello spettacolo e del successo. Praticamente la migliore esecuzione de ‘L’Internazionale’ mai ascoltata su un prato verde, e senza note.

Il che rende manifesto che qualcosa, nel loro modo di applicare il socialismo, è andato irrimediabilmente storto.

6. Il Perugia di Sollier, quelli che, a parte Sollier, non erano poi così socialisti.

Socialisti perché avevano Sollier in squadra.

Il Perugia del ’74-75 – allenato da un giovane Ilario Castagner – vinse il suo primo campionato di Serie B, conquistando una storica promozione nella massima serie. Uno degli attaccanti di quella squadra (neanche il più prolifico, quell’anno, con sole 7 reti a fronte delle 9 di Pellizzaro) era Paolo Sollier. Terminale offensivo dinamico, ma privo di particolari qualità tecniche, Sollier era anche militante di Avanguardia operaia, abbonato al Quotidiano dei Lavoratori, e salutava i tifosi con il pugno chiuso. Questo, unito al colore della maglia del Perugia, bastò per rendere quella squadra un piccolo caso extra-sportivo. Sollier stesso, tuttavia, ha ammesso quanto fosse una rarità, all’epoca, poter parlare di politica con altri calciatori. La sua riserva, allora, era Walter Sabatini, delle cui analogie con il socialismo d’oltreoceano abbiamo parlato qui. Nel suo primo anno in Serie A, comunque, il Perugia di Sollier conquistò un inaspettato ottavo posto e si regalò un momento di glorioso ostruzionismo socialista, sconfiggendo la Juventus del “padrone” Agnelli in casa, all’ultima giornata, consegnando di fatto lo scudetto nelle mani del Torino. Quel giorno, a Berlino, la statua di Marx pianse.

5. La Nazionale di calcio Sovietica del ’60, quelli con l’autorizzazione ufficiale.

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Socialista perché nel 1917 hanno vinto i Soviet.

Chi più socialista di loro, almeno in termini di rappresentanza e di autorizzazione regolarmente rilasciata da organi ufficiali. Lev Yashin, il ragno nero – uno dei portieri più forti della storia -, il bomber Ivanov, Igor Netto, Bubukin, le ali georgiane Mekshi e Met’reveli: l’Urss campione d’Europa – per di più della prima edizione ufficiale di un Campionato Europeo -, era una squadra forte, molto forte, ma a essere onesti qualsiasi squadra sovietica protagonista di  una vittoria importante sarebbe finita in questa classifica, di default. Perché non gli abbiamo dato il podio, dunque? Perché rappresentavano l’establishment, e  la storia ci insegna che, se non è all’opposizione,  il socialismo duro e puro, più che godere, diciamo che si accontenta.

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4. Il Foggia di Zeman, quello degli utopisti.

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Socialisti per affinità elettiva.

Per essere uno che ha deciso di rimanere in Italia all’epoca dei carrarmati su Praga, Zdenek Zeman, durante la sua carriera, non si è comportato esattamente come quello che, per odio nei confronti dell’Urss, fa l’amore con il liberismo a ogni pie’ sospinto. Squadra corta, marcatura a zona, difesa alta (ma che dico “alta”, nella stratosfera), portiere con i piedi buoni, che partecipa alla manovra, tridente offensivo, Praticamente il paradigma calcistico del socialismo più puro, quello inapplicabile, quello che farebbe svegliare di soprassalto Marx, nella notte, urlante. Rambaudi, Baiano, Signori  – Zeman fu il primo a scommettere su di lui -, in seguito anche Shalimov e Kolyvanov, tanto per far pronunciare qualche nome da Soviet alla stampa neoliberista. Il Foggia era una squadra che veniva dal basso, proletaria, sposa perfetta di uno Zeman eterno nemico degli individualismi. Insieme, da veri utopisti, hanno conquistato l’attenzione di un calcio come quello nostrano: ottuso, fiero della sua poca fantasia e anche un po’ ipocrita. Ovviamente senza vincere nulla, particolare che per poco non gli vale il podio socialista.

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3. St. Pauli, quelli che il calcio c’entra, ma fino a un certo punto.

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Più che socialisti, una masnada di crucchi anarchici, allergici all’establishment.

Una squadra minore, molto minore, divenuta fenomeno culturale extra-calcistico. Priva di stelle, priva di leggende, priva di vittorie importanti da ricordare, eppure faro di un modo alternativo di intendere il pallone, quasi fosse solo un pretesto per creare aggregazione sociale e cultura sportiva. E basta, dico. Cose da pazzi, ma scherziamo? La fissazione per la competizione, per il risultato a tutti i costi, rimane alla porta.

Tutto questo è il St. Pauli, seconda squadra di Amburgo, il cui stadio si innalza nel cuore pulsante del Reeperbahn, quartiere a luci rosse al centro della vita notturna cittadina, ma anche rione profondamente multietnico, distante solo 200 metri da uno dei porti più importanti d’Europa. Il segreto di questa rivoluzione culturale? Azionariato popolare, iniziative per combattere il degrado del quartiere e una tifoseria apertamente schierata contro razzismo e neonazismo. Per far sopravvivere la società, diverse volte sull’orlo della bancarotta, i soci del club l’hanno trasformata in un vero e proprio marchio, mettendola al centro di un fitto merchandising che finora ha permesso l’auto-sostentamento nelle sue brevi, saltuarie, talvolta irrilevanti comparsate in Bundesliga. I tifosi, inoltre, hanno deciso che il nome dello stadio non potrà mai essere venduto a nessuna azienda o multinazionale, come succede in Inghilterra. Tutto questo ha portato il St. Pauli, da una media di 1600 spettatori negli anni ’80, ad assurgere allo status di club “minore”, sì, ma con uno stadio da oltre 20mila posti e con un seguito che supera le dimensioni del  quartierino di una volta, tanto che si estende ad appassionati provenienti da tutti e cinque i continenti. Non è questione di socialismo, quando sei così avvelenato.

“Not established since 1910”. Eh sì, mado’, abbiamo capito.

2. Il Corinthians di Sòcrates e la ‘Democracia Corintiana’.

corinthians

Socialisti per davvero.

Nel 1982, in Brasile, c’è la dittatura militare. Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, uno dei centrocampisti verdeoro più forti di sempre, gioca nel Corinthians. Laureato in medicina senza mai esercitare la professione, viene da una famiglia umile e coltiva altre due passioni oltre al calcio: la filosofia e la politica. I suoi compagni di squadra si rifiutano di sottostare alla concentração, termine inquietante che corrisponde a una versione oscurantista del ritiro pre-partita. Sòcrates si erge perciò a leader dello spogliatoio e di fatto inizia un’autogestione del club in cui la concentração non esiste più, la formazione è decisa dai giocatori e ogni decisione viene presa dalla squadra tramite votazione interna per alzata di mano, ricalcando il sistema democratico che nel Paese era venuto meno.  La chiamavano Democracia Corintiana. I membri della rosa e della dirigenza avevano eguale diritto di voto, e le loro opinioni avevano lo stesso peso. A coronamento di questa rivoluzione culturale toda joia, toda beleza, nel 1982 e nel 1983 la squadra vince il Campionato Paulista. Finito il suo mandato, Sòcrates non si ricandida. Parte invece alla volta dell’Italia dove, più che per l’opaca stagione trascorsa alla Fiorentina, viene ricordato per aver dichiarato che l’italiano che ammirava di più era Antonio Gramsci, e che non vedeva l’ora di leggerlo in lingua originale. Sfortunatamente Sòcrates ci ha lasciati nel 2011, e ora siede alla sinistra di Engels. Il successivo capitano del Corinthians, D’Alemao, ha inaugurato invece la stagione della Bicamerale Corintiana, che non ha avuto lo stesso successo.

democracia

1. Chacarita Juniors ’69, gli operai che hanno fatto l’impresa.

Chaca 69

Socialisti per scelta.

Nato come uno dei tanti circoli ricreativi per operai che sbocciavano nei primi del ’900 in Sudamerica, il Chacarita Juniors è un club di Villa Maipù, in Argentina, i cui giocatori, per via del colore nero sul gagliardetto, vengono allegramente soprannominati “Los Funebreros”, ovvero “I becchini”, in sintonia con lo humor tipico che si può ritrovare nell’autocritica di certa sinistra. Il nero fu scelto proprio per associazione col vicino cimitero del quartiere Chacarita, una di quelle cose che ti segnano in partenza. Il bianco fu scelto per la purezza dei componenti della squadra, in sintonia con il sobrio senso di superiorità morale che contraddistinguerà gli apparati di partito europei negli anni a venire. Il rosso, infine, venne scelto in virtù di un’associazione politico-cromatica pionieristica, antesignana di una febbre vermiglia che infiammerà la moda giovanile di mezza Europa, facendo pendànt con le sciarpine di cashmere, alternative rivoluzionarie agli scarpini coi tacchetti, volgari e anche un po’ massimalisti.

Nel 1969 gli eredi di quei padri fondatori erano gli ingranaggi umili di una squadra senza stelle, fedele alla filosofia operaia delle origini e basata esclusivamente sul gioco di squadra. All’epoca il campionato argentino era diviso in due gruppi da 11 squadre, dai quali emergevano quattro semifinaliste. Bene, il Chacarita Junior non solo arrivò tra le finaliste, ma addirittura vinse quel campionato, battendo in finale per 4 a 1 nientemeno che i  ”millonarios” del River Plate, la squadra dei ricchi di Buenos Aires. Non mi chiedete come, la partita non l’ho vista. Ma è successo, è su tutti gli almanacchi. No, non lo so se sono interpolazioni propagandistiche della seconda ora. Quello che so, ovviamente, è che da buona stella cadente socialista, il Chacarita scomparve dal calcio che conta, cominciando a fare la spola tra la seconda divisione e i bassifondi della massima serie.

Tuttavia, per celebrare quello che fu il giorno più bello, la società aggiunse una stella al suo stemma a simboleggiare l’unico titolo vinto. Dio ci salvi se lo viene a sapere Andrea Agnelli.

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