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La transizione ecologica tra comando del capitale, erosione del soggetto e nuovi antagonismi

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Di Alice Dal Gobbo per Effimera

La “transizione ecologica” ha improvvisamente acquisito una centralità inaudita nell’ambito della politica istituzionale italiana. Essa si configura principalmente come un nuovo campo di ripresa economica, guidata dalla retorica della crescita e dello sviluppo, in un percorso simultaneamente di rottura e continuità con la governamentalità ambientale degli scorsi decenni. Da un lato, infatti, riconferma quel modello su cui già si è largamente ragionato, per cui la crisi ecologica e il danno ambientale smettono di essere limiti all’accumulazione di capitale, divenendo invece nuove occasioni di profitto e investimento, in breve nuovo spazio e motore di accumulazione. Dall’altro lato, questo campo di valorizzazione ecologica assume un ruolo particolarmente centrale nella risposta oserei dire disperata ad una crisi sistemica senza precedenti esacerbata dalla pandemia Covid-19.

La “transizione verde” è, di fronte al collasso generalizzato del sistema-mondo e dell’ecologia-mondo tardo capitalisti, non soltanto lo spazio per la ricerca di nuove “opportunità” per un’economia ormai languente: è il luogo e il tempo dell’assalto ultimo al vivente ancora irriducibile alle logiche del valore, il tentativo profondo di convertire tutto il mondo – organico e non – alla logica ad esso estranea della produzione e dello scarto, oblio finale dei limiti e della cocciuta forza della materia nel sottrarsi ai disegni del capitale.

È anche uno strumento di legittimazione politica per un sistema sempre meno capace di rispondere ai bisogni concreti della gran parte della popolazione e che anzi fa dell’esclusione il suo marchio “di fabbrica”. Un ultimo tentativo socio-culturale di supportare la retorica moderno-capitalista, occidentalocentrica, dello “sviluppo” – promettendo soluzioni tecniche ai danni da esso stesso provocati.

Si tratta di un campo tutto da investigare, ancora fluido, dove diversi interessi si incontrano e scontrano nella definizione dell’agenda a venire. Dentro questo contesto vi è un antagonismo socio-ecologico ormai dotato di narrazioni, discorsi e pratiche radicalmente incompatibili con ogni sforzo capitalista di adattamento alla realtà della crisi, capace di svelare i trucchi delle retoriche fintamente ecologiste che nascondono devastazione e nocività ambientali, sociali, culturali e psichiche. La transizione ecologica sarà allora il vero e proprio “campo di battaglia” da abitare nel tempo a venire. Contro l’estremo, disperato e violento tentativo di un sistema allo sfascio che coglie l’occasione della riconversione ecologica per sopravvivere, si dà la lotta per rivendicare il vivere: il “vivere bene” inteso nel suo senso più profondamente politico, anche conflittuale, comunque non pacificato, sempre teso alla realizzazione di relazioni giuste, esistenze gioiose, esperienze di reale messa-in-comune. Affinché l’ecologia possa tradursi in pratiche e politiche di co-abitazione ecologica non più guidata da logiche necrofile e necropolitiche.

Ogni campo di lotta è abitato da soggetti – individuali, collettivi, più-che-umani, in costante (ri)definizione. Ciò su cui mi interessa riflettere in ciò che segue è precisamente il tema del soggetto: che fine ha fatto il soggetto nella “transizione ecologica”? Forse parrà una preoccupazione ristretta, troppo piccola per confrontarsi con le grandi domande che questa fase di turbolenta trasformazione sta ponendo. Tuttavia, è nel definire e definirsi come soggetti che ci posizioniamo e siamo posizionati, agiamo e siamo agiti. Lo spazio di soggettivazione è sia luogo di subordinazione e definizione entro forme di (ri)produzione date, sia luogo dell’evento radicale, dell’affermazione di singolarità potenzialmente rivoluzionarie. In questo senso è importante domandarsi chi sono i soggetti che abitano il composito spazio discorsivo e materiale del presente e delle sue risposte alla crisi ecologica.

La governance ambientale di stampo neoliberale aveva al suo centro un certo soggetto, che tanto la critica più “filosofica” quanto i movimenti sociali si erano abituati a riconoscere, destrutturare, mettere in questione praticando e pensando forme alternative di soggettivazione. Per decenni, le politiche ambientali e le “transizioni” verso la sostenibilità sono state dipinte come un processo in cui tutte le persone, intese in quanto individui, erano chiamate a fare la propria parte. Ogni soggetto era responsabile del benessere proprio e degli ecosistemi: aveva la possibilità di scegliere l’opzione verde al supermercato, si definiva come “buona cittadina” nel differenziare i rifiuti, poteva ridurre l’uso dell’auto o comprarne una elettrica per diminuire l’impatto della propria mobilità. Nella grande illusione che “la società non esiste” mentre c’è soltanto una massa aggregata di individui, è conseguente che sia possibile produrre cambiamenti radicali grazie al comportamento e alle scelte virtuose che nella propria quotidianità ognuna può compiere. Dal canto loro, i comportamenti erano immaginati come il risultato lineare di valori etico-morali e attitudini astratte che poi si concretizzavano in scelte autonome e sovrane. Si è data tanta enfasi alle campagne di sensibilizzazione, informazione e responsabilizzazione delle singole persone nell’idea che una giusta consapevolezza rispetto ai risultati delle proprie azioni sarebbe stata sufficiente per cambiare i comportamenti individuali e, di conseguenza, l’intera società.

Una simile de-politicizzazione (o meglio: questa politicizzazione fintamente a-partitica, super-partes, a-conflittuale) ha permesso a soggettività anche molto diverse una temporanea convergenza sulla governamentalità ambientale dominante. Ha pacificato, per esempio, un certo ambientalismo moderato con l’agenda delle élite neoliberali. Il soggetto neoliberale, il “cittadino-consumatore” individualizzato, è stato costruito come apolitico, neutro, universale. E però tale costruzione si rivela ideologica, praticamente falsa, coloniale poiché ne cancella la parzialità incarnata e storicamente data: il modello a cui si rifà è infatti il maschio bianco razionale, scorporato, proprietario, sovrano e autonomo.

Il credo di matrice cartesiana che segna questo modello è stato ampiamente criticato. Nessuna azione può essere considerata come atto singolo, smaterializzato, indipendente dai rapporti sociali, dalla costruzione del desiderio e delle possibilità materiali entro cui le persone crescono, vivono, riproducono la propria esistenza. La scelta non è mai libera né sovrana ed è distribuita in modo diseguale in un mondo in cui l’accesso alle risorse, ai servizi e al sapere sono sempre più polarizzati. La costruzione della responsabilità come un che di individuale invece che collettivo non fa che supportare e giustificare il mantenimento della realtà data, diminuisce le possibilità di politicizzazione, toglie le basi a forme di azione, rivendicazione, lotta e costruzione collettive, oscurando diseguaglianze strutturali. Si colpevolizzano le azioni dei soggetti che meno sono responsabili del degrado ambientale, moralizzandole, mentre si distoglie l’attenzione dalle domande e dalle risposte propriamente politiche attorno alla crisi ecologica.

La figura tanto centrale quanto mitica e mitologica del “soggetto” nella sua versione neoliberale ha dunque agito come un’illusione pratica, schermo ideologico, dispositivo depoliticizzante. Ma è proprio anche nel suo clamoroso fallimento pratico e politico che si è reso evidente che nessuna transizione veramente all’altezza delle sfide del presente può accadere senza ragionare e agire su un piano collettivo. In ciò, questa narrazione tossica si è configurata come spazio di contesa, narrazione da abitare per articolare processi nuovi, rivoluzionari. Per coloro che al sistema si sono opposti, ha permesso di “farsi” in quanto soggetti altri, collettivi, spinti dal desiderio, inclusivi e aperti ad una dimensione più-che-umana, di co-abitazione e cooperazione. È stato possibile creare contro-narrazioni all’idea della transizione ecologica come aggregato di scelte e comportamenti individuali, praticando forme di resistenza, lotta e (ri)costruzione ecologiche basate sulla cura reciproca, sull’invenzione di rapporti socio-ecologici nuovi e differenti forme del valutare. All’individuo razionale neutro e depoliticizzato si è contrapposta una politica di corpi desideranti che travalica le barriere identitarie e al contempo costituisce posizionalità dichiaratamente collocate, differenti, non universali: che traccia un campo di forze e lotta.

Nell’ambito delle trasformazioni del concetto e delle pratiche di governance della “transizione ecologica” odierna, i dispositivi di soggettivazione in campo stanno anch’essi cambiando. Appurata anche nei fatti la fondamentale impossibilità di attuare cambiamenti sostanziali appellandosi alla moralità de@ cittadin@ e alla buona volontà delle singole persone, il soggetto sovrano, agente, in controllo delle proprie scelte sta abbandonando il palcoscenico della retorica mainstream. Al suo posto, si afferma invece un’idea di “transizione ecologica” altamente tecnocratica, dove i soggetti fatti di carne, ossa o pensieri tendono a recedere sempre più verso uno sfondo di invisibilità. È la transizione degli investimenti di capitale, dell’informatizzazione strisciante di tutta la quotidianità, del software e dell’algoritmo, delle grandi opere inutili imposte, delle infrastrutture escludenti, della finanza, della messa-a-valore di territori a perdere in nome della “conservazione” o della “compensazione”. Per quanto, e non si dovrebbe mai smettere di ridirlo, dietro a questa transizione ci siano dei soggetti ben specifici, essi non sono nominati. Il motore agente, nel discorso, sembra più che altro un soggetto automatico: l’Economia, lo Sviluppo, la Tecnologia…

Non che ciò non accadesse già da prima, tuttavia ora che la “transizione ecologica” diviene uno strumento chiave di “ripresa”, di rilancio di rapporti sociali di (ri)produzione al collasso, questi elementi prendono il sopravvento. Tirare in ballo il soggetto, in qualsiasi caso, significa introdurre un elemento sfuggente e irriducibile al controllo: lo scarto, la contestazione, la contro-condotta, il semplice fatto di non comportarsi a dovere. Nell’eliderlo del tutto, ciò che questa transizione pare promuovere è un comando diretto, violento e senza mediazioni sui territori e i soggetti che li abitano da parte del capitale e delle istituzioni (lo stato in primis) che ne veicolano l’agire.

Si può salutare senza rimpianti quel soggetto neoliberale astratto e ideale che fungeva da maschera ideologica alla devastazione ecologica su larga scala, ma l’effettiva cancellazione della soggettività nell’ambito della governance ambientale presente va interrogata e soprattutto abitata in modo conflittuale. La fine della narrazione sulle buone azioni del singolo non implica, per le istituzioni dominanti, una politica pubblica basata sulla costruzione di percorsi comuni, collettivi, giusti e partecipati, abitata da soggettività molteplici e concretamente viventi. Al contrario, l’odierna “transizione ecologica” a comando capitalista tende a oggettificare tutto: persone, natura non-umana, territori. La vita nel suo complesso diventa substrato dei processi di accumulazione, spazio estrattivo, oggetto a perdere, al massimo motore attivo nella produzione di valore. Come hanno dimostrato gli esiti recenti delle mobilitazioni in Val Susa contro la TAV, si afferma incontrastata la colonialità come logica intima della politica ecologica: il soggetto dominante riduce a oggetto tutto ciò che gli è altro, togliendo voce, capacità di azione, libertà, autodeterminazione.

Di contro a questo dispositivo di soggettivazione si potrà, dovrà, però continuare a costruire soggettività antagoniste capaci di abitare e riparare la colossale crisi planetaria che si delinea. Negli scorsi decenni, i movimenti ecologici radicali hanno denunciato l’inconclusività della politica delle buone azioni quotidiane e contestato l’azione su larga scala attraverso cui il capitale si appropria di vita ed estrae valore dalla materia vivente. Oggi, nel palesarsi della continua e inevitabile violenza delle transizioni verdi a logica capitalista, si è data la caduta definitiva dell’ideale post-politico della politica ambientale come campo potenzialmente situato oltre la conflittualità, pacificante, neutrale. Si articolano percorsi di azione che colpiranno ancora più profondamente e in modo dieseguale collettività e territori interi.

Gli spazi di mediazione sono sempre più ristretti, claustrofobici, inabitabili. I nuovi termini della conflittualità sono in definizione. Di fronte ad un comando sempre più inflessibile e all’erosione del soggetto (come singolarità) che esso tenta di mettere in campo, vi è forse – paradossalmente – lo spazio perché si intensifichi tutta l’irriducibilità vivente di una politica antagonista. Come esperienze tra le più diverse – da quella curda, ai movimenti indigeni di resistenza contro i progetti estrattivi, ma anche le attuali mobilitazioni in America Latina – dimostrano, la lotta per una reale e giusta transizione ecologica contro i dispositivi dello stato e del capitale è autodeterminata dentro e con i territori, nell’invenzione ribelle di relazioni socio-ecologiche radicalmente liberate. Più la “transizione ecologica” sembra guidata da un soggetto automatico che risponde a regole universali necessarie e neutrali, più questo non/soggetto schiaccia l’altro-da-sé nell’assenza radicale di riconoscimento, più potrà trovare spazio la politicità vitale, conflittuale, concreta e in divenire di collettività estese. Di contro a un soggetto maggioritario e proprietario sempre più spettrale, ottusamente auto-accrescitivo, chiuso nei confini mortiferi dei rapporti esistenti di classe, specie, genere e razza: una proliferazione di soggettività minori, alleanze che fanno della posizionalità non padronale la propria potenza, della carnalità sensibile e vulnerabile dei corpi la propria gioia.

 

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