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Il campo di battaglia digitale

Alessandro Gazoia è conosciuto sul web come Jumpinshark: è uno dei blogger più attenti alle trasformazioni del linguaggio e della narrazione giornalistica, dentro l’occhio del ciclone della grande mutazione del passaggio al digitale. Il suo ebook “Il Web e l’arte della manutenzione della notizia”, uscito per Minimum Fax solo da qualche settimana, è uno strumento imprescindibile per orientarsi nello scenario in evoluzione, per coglierne i rischi e le opportunità, senza cadere in facili entusiasmi né in apocalittiche previsioni. Ne discuteremo a Roma tra qualche giorno, dove arriverà dopo essere passato dal Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia (che ha deciso di dedicargli un panel): il 29 aprile sarà alla libreria Giufà e il 30 al Nuovo Cinema Palazzo, in un evento organizzato da DinamoPress.

Cominciamo a chiacchierare con lui proprio tracciando i contorni del campo di battaglia. La rivoluzione telematica, ormai lo sanno anche i sassi, è disintermediazione. Si costruiscono relazioni dirette, nuove, sul terreno del consumo e sul campo di battaglia politico: nel primo caso a farne le spese sono i negozi tradizionali, nel secondo i partiti novecenteschi. Anche per l’informazione siamo davanti allo scavalcamento dei corpi intermedi giornalistici, fenomeno che offre la possibilità di mettere in relazione direttamente il cittadino con la notizia ma che produce anche fenomeni di ipersfruttamento e nuove forme di accentramento monopolistico.

“In primo luogo credo sia necessario capire bene che in luogo di una catena di disintermediati vi sono dei nuovi supermediatori – esordisce Jumpinshark – pensa ad esempio al fenomeno dell’autopubblicazione e ad Amazon, anzi pensa alla lettura e ad Amazon, anzi (per calcare il pedale della satira distopica, sperando che rimanga tale) pensa a quasi ogni altra cosa e ad Amazon… Poi, nel concreto, va considerata la situazione italiana, dove, in molti campi, forme tecnologicamente ed economicamente superate continuano a “resistere” per varie ragioni. Detto più chiaro e lasciando stare l’Ordine dei Giornalisti: la legge sulla stampa del 1948 con il suo bel reato di stampa clandestina e quei disclaimer apotropaici che nel 2013 continuano a recitare “questo blog non è una testata giornalistica” fanno più ridere o straziano più il cuore? Per quanto riguarda il digitale, non mi pare che le principali testate italiane abbiamo implementato un modello economico “vincente” o almeno pienamente sostenibile e quindi, considerata appunto la transizione in corso, credo che fenomeni come la precarizzazione continuata e le retribuzioni minime non vedranno di certo una diminuzione (sempre che, purtroppo, non si proceda direttamente a licenziamenti in massa).”

Solo punti oscuri, dunque?

No, bisogna osservare che non è mai stato così facile avviare nuove imprese, commerciali e non commerciali, d’informazione (lasciamo ora stare il quadro normativo su editoria e giornalismo) e continuo a vedere possibilità liberanti nelle nuove tecnologie. Certo quando ti spacciano opacissimi sondaggi online, fatti pure tecnicamente molto male, per genuina democrazia digitale postpartitica, immediata e disintermediata, la voglia di diventare un apocalittico è tanta… Ma sarebbe, in fondo, la scelta più comoda e pigra.

Ragionando di “rivoluzioni digitali”, spesso si dimentica che in Italia non abbiamo avuto una new economy vera e propria, con quello che ne deriva dal punto di vista della composizione di classe dei lavoratori e dell’allargamento di quella che è stata definita la “classe creativa”. Sappiamo come questa assenza di forza lavoro cosciente dal punto di vista politico ha generato ingenuità e dabbenaggine attorno all’uso del web come strumento di una “democrazia diretta” posticcia. Ma che effetti produce questa mancanza sul panorama dell’informazione?

La crisi della formazione e il ritardo culturale e tecnologico italiano – al netto di tutti i centri di eccellenza, che spesso in condizioni di enorme difficoltà, continuano a lavorare e produrre ricerca – sono ormai evidenti per tutti. Dopo decenni di politiche dissennate alla fine si è forse capito che la difesa delle quote latte e i ministeri a Monza non erano la scelta migliore per il futuro produttivo del paese. Di qui anche tutta la retorica, compensativa e spesso esiziale, delle startup e dell’innovazione all’italiana (anche se, ripeto, progetti come Arduino di Massimo Banzi meritano un enorme rispetto e stupiscono favorevolmente).

Questo ritardo e questo entusiasmo immotivato li vedi anche nell’informazione italiana, ad esempio nella copertura dei new media / social media sulle maggiori testate o nell’adozione acritica e goffa di nuove forme come le infografiche.

Bisogna inoltre guardare anche al contesto più ampio di produzione dell’informazione: ad es. in un paese in cui l’accesso alle informazioni della pubblica amministrazione, nonostante ogni trionfalistico annuncio preelettorale del governo Monti, è ancora limitatissimo, come fai a fare giornalismo dei dati?

Chi ha più di trent’anni e viene da un percorso politico preciso, ha ricevuto un’alfabetizzazione informatica molto prima del resto della popolazione, grazie alle sperimentazioni pionieristiche delle controculture digitali e dei movimenti sociali. Del resto, l’archeologia del cosiddetto Web 2.0 e del “giornalismo partecipativo” era Indymedia. E, per restare a sinistra ma su un terreno più legato al giornalismo più tradizionale, il primo quotidiano ad avere un sito web è stato Il Manifesto. Come mai nel corso degli Anni Zero questo patrimonio ha perso terreno, è fatto scavalcare, senza riuscire ad approfittare dell’utilizzo finalmente di massa di Internet?

È vero che a sinistra e soprattutto nei movimenti dagli anni Novanta c’è stato un serio impegno sulla rete. E la parabola di Indymedia Italia è purtroppo di una tristezza esemplare; vedi sul recente autospegnimento “C’era una volta Indymedia” di Mazzetta, che parla anche per esperienza diretta e comunica bene il senso più alto di quell’esperienza. Ci sono anche ovvie ragioni tecnologiche ed economiche per il venire meno del “vantaggio informatico” dei mediattivisti. In primo luogo, come dicevi, l’ascesa dei grandi social network come Facebook e Twitter. Sono però convinto che vi siano ampli spazi perché certe esperienze possano essere riprese, rinnovate, migliorate e integrate anche con i social oggi sempre più pervasivi. A patto di avere una comunità reale dietro che, in vista di obiettivi ideali e reali, lavori con serietà, metodo e nel lungo periodo a un progetto d’informazione indipendente e meno “scazzi a sinistra” (davvero nessuno se li può più permettere).

Nel tuo libro ricordi che le notizie più cliccate dal sito de Il Fatto Quotidiano nel corso dell’intero 2012 provenivano dalla parte del sito che non viene scritta a pagamento e che probabilmente viene veicolata dai social nework, visto che gli articoli in questione non parlavano di giustizia e politica, capisaldi della linea editoriale del giornale di Travaglio e Padellaro. Significa che – come nella migliore tradizione del capitalismo postmoderno – per essere competitivi bisogna anche avere riuscire a “fare comunità”?

Il caso del Fatto Quotidiano è notevole, perché meglio di altri ha sfruttato la “colonna di sinistra dei blogger”, e in essa ha coinvolto giornalisti, pubblicisti e personalità a vario titolo autorevoli. È una strategia editoriale precisa e dimostra un considerevole impegno e una certa abilità nell’ “alimentare la conversazione”. Inoltre, dal punto di vista della piattaforma tecnologica, va pure rilevato che i numeri enormi del Fatto sono costruiti su di un WordPress (content management system) e un Disquus (commenti integrati coi social) disponibili gratuitamente per qualsiasi futura o attuale testata (Dinamo Press li ha saggiamente adottati).

Poi bisogna vedere se “alimentare la conversazione” equivalga o sia almeno un passo nella direzione di quel “fare comunità” nel significato che tu intendi. Per me può esserlo, ma non è affatto scontato.

Da ultimo una cosa che mi pare molto importante: c’è una quantità enorme di notizie, di realtà, che non viene comunicata dai grandi giornali. I blogger del Fatto Quotidiano ne intercettano alcuni frammenti e mostrano quanto spazio vi sia per una diversa strategia editoriale. Ma prendi Enrico Mentana e il suo rifiuto di andare dietro alla cronaca nera, al meteo, al traffico e al pranzo di Pasquetta: a me fa piacere non vedere quei servizi (tra parentesi, sono nella fascia sociodemografica per cui è pensato il tg di La7), però quando tutto quel tempo e spazio liberati sono riempiti solo da quindici minuti in più di cronaca politica quotidiana di piccolo taglio penso “che spreco” (in realtà, “che economia”, perché Mentana costruisce un tg di successo con scarsi mezzi: Maurizio Gasparri e Alessandra Moretti davanti a un microfono costano pochissimo e rendono molto, in una certa fascia sociodemografica). Insomma c’è tutto un mondo fuori da raccontare e c’è un pubblico, partecipante, per quel mondo e quei racconti.

Osservi anche che i principali giornali cartacei (La Repubblica e il Corriere della Sera) gestiscono i siti di informazione più visitati ma che questi sono costruiti sul modello del giornale tradizionale. Il passaggio successivo sarà il tentativo di mettere a pagamento alcuni contenuti. Implicherà la messa in discussione del modello carta-centrico?

Volenti o nolenti i maggiori quotidiani stanno già mettendo in discussione il modello carta-centrico, anzi alcuni, in testa il Sole 24 Ore, paiono molto decisi nella “transizione al digitale” (che non vuol dire, almeno nel medio periodo, eliminazione della carta). Questa è una necessità economica, chiara per tutti. Dal punto di vista giornalistico è mia opinione che molti scontino ancora un forte ritardo, in buona parte indipendente dai limiti tecnologici di alcune piattaforme. Sul modello a pagamento abbiamo visto in questi mesi un certo rallentamento, nonostante la drammatica crisi dei giornali, perché, semplificando con una domanda secca, quale grande testata in questa fase politica tira su un paywall? Quando puoi far scrivere decine di editoriali e cronache al giorno sul nuovo governo, la solidità delle alleanze, il totoministri, le manovre nascoste, i mal di pancia e i pettegolezzi dei peones, l’ultima marachella della pasionaria Pdl, la buvette di Montecitorio? Sono i temi più tradizionali e automatici (con “il fenomeno Grillo” e “la pressione di Twitter” come new entry), inoltre possono essere sfruttati molto bene, nel “tempo reale” del web (cioè nell’immediatezza irriflessa della macchina digitale delle notizie); infine, comunicano al meglio la “coscienza politica”, diciamo così, di molte grandi testate.

Qui il discorso si farebbe lungo però è significativo che recentemente De Benedetti abbia di molto annacquato il suo annuncio di “Repubblica a pagamento” di dicembre 2012; ora afferma che “Entro l’anno, alcuni contenuti aggiuntivi al sito di Repubblica verranno offerti a pagamento, mentre il sito generale resterà gratuito” (cito appunto da Repubblica del 18 Aprile). A me pare che questa sia già l’attuale impostazione di molti giornali, da Repubblica a L’Unità, e non il modello metered paywall che De Benedetti sostiene ancora di voler adottare. Vedremo…

di Giuliano Santoro, fonte: dinamopress

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