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Dopo il Virus: la Città che verrà e quella che vorremmo

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Riprendiamo questo stimolante contributo apparso su codice-rosso.net che pone in luce alcuni dei nodi su cui è necessario riflettere ulteriormente nel contesto della pandemia di Covid 19 per ripensare radicalmente l’agire politico alla luce della fase.

 

di coltrane59

“Piuttosto che distribuire ai bambini un po ‘ di giocattoli, non dovremmo aiutarli ad uscire dal vaso di sabbia e a riconquistare la città?” ( Colin Ward – Il bambino nella città)

“Ci hanno mescolato le anime e ormai abbiamo tutti gli stessi pensieri. Noi aspettiamo, ma niente ci aspetta, né un’astronave, né un destino” (Gianni Celati – Verso la Foce).

La seconda ondata del Covid-19 sta lasciando sulla strada milioni di morti in tutto il mondo e le conseguenze economiche, sociali e culturali sono e saranno devastanti. A distanza di quasi un anno dall’inizio della pandemia non sono ancora state adottate le misure giuste per arginarla. In particolare l’Occidente, basta guardare l’Italia, sta dimostrando tutta la sua incapacità gestionale, politica e scientifica a costruire un modello di lotta al virus chiaro, efficace e omogeneo.

Ma finito questo momento drammatico cosa rimarrà delle nostre città? Cosa capiremo da questa grande lezione storica? Che tipo di memoria collettiva potrà nascere da queste rovine umane e culturali?

Sanità e territorio

La Pandemia ha messo in luce una serie di mancanze della situazione della sanità occidentale e soprattutto di quella italiana: quasi 70.000 morti al momento, carenza di medici e infermieri lasciati allo sbando, problemi di materiale sanitario, bombole, ossigeno, mascherine, mancanze di terapie intensive e di posti letto dovute ai tagli effettuati dalle politiche neo liberiste di governi presieduti dalla destra o dal centro sinistra.

In particolare non si è mai pensato di creare delle unità territoriali di quartiere che potessero essere vicini ai malati, non solo di Covid, di ogni età e fascia economica. Unire le città, i suoi abitanti e la malattia significa creare un insieme sociale e culturale in cui la sofferenza e la morte possano essere esperienze costitutive e decisive della vita di ognuno di noi, anche se in misura e scale diverse. Nelle nostre città non sappiamo, da molto tempo ormai, rapportarci con il dolore e con la perdita. Non siamo in grado di costruire una politica, locale, partecipata e innovativa, che si faccia realmente carico della sofferenza.

La scuola è il problema

La scuola è uno dei problemi che viene evidenziato da questa epidemia: non si tratta di Didattica a Distanza o di rientro posticipato a scuola, non si tratta di giovani scapestrati che diventano degli untori per gli anziani o di professori che non hanno voglia di lavorare. La scuola da decenni ormai non serve a nulla, non forma, non insegna a vivere, ascoltare, essere, inserirsi in un contesto innovativo, capire insieme la complessità, riflettere e unirsi per un nuovo modo di lavorare e di crescere, comprendere il dolore, la sofferenza, la morte, avvertire quello che può essere cambiato e quello che, invece, fa parte di un futuro negato.

A scuola non si insegna a pensare per un sogno o per un futuro collettivo. Pensare radicalmente. Non è un caso che “Non si è pensato a fondo e non si è agito politicamente all’altezza dei tempi. Non è un verbo nichilista, quello che sto qui offrendo. Constato con rancore e disperazione ciò che la mia coetaneità non ha mai fatto, a parte luminose eccezioni: pensare radicalmente, essere radicalmente.” ( Giuseppe Genna – Intervista a Codice Rosso)

Le università, insieme a quelle rovine politiche che ci troviamo davanti, non sono riuscite a fondare un pensiero forte, all’altezza di questi tempi, che sia prospettiva collettiva e immaginario sociale, orizzonte di senso e sogno a venire. Nelle nostre città, librerie e luoghi di cultura stanno chiudendo uno dopo l’altro e il Covid sembra aver dato loro la mazzata definitiva. Eppure i nostri quartieri avrebbero bisogno di università popolari, dopo scuola per le classi sociali più abbandonate, luoghi di incontro artistico e sportivo, librerie e teatri di periferia, spazi destinati allo scambio culturale e umano. Ma in ogni modo la scuola dovrebbe rimanere al centro del progetto sociale delle nostre città.

Più semplicemente la scuola sono i bambini; ma forse i bambini “non producono ricchezza, i bambini, non votano, non hanno alcun peso politico. Eppure sono la miniera più inestimabile: coloro che ci continueranno, a cui trasmettiamo sapere affinché portino avanti il mondo dopo di noi e lo cambino in meglio. Senza questo passaggio di testimone, senza questa prospettiva, cosa ha senso?” (Silvia Avallone – “La scuola diventi la casa di chi studia”).

Lavoro e modello economico

L’epidemia del Coronavirus è stata devastante per il mondo del lavoro. Milioni di lavoratori al palo in tutto il mondo e intere città, centro e periferie in ugual misura, svuotate hanno portato ad un crollo di una serie di attività considerate secondarie. Giustamente Marco Bascetta ci fa notare: “ Il modello che sta prendendo piede in buona parte d’Europa è purtroppo quello fondato su una contrapposizione tra le attività produttive disciplinate (da mantenere attive ad ogni costo e con qualunque rischio) e le inclinazioni relazionali autonome, l’esercizio di libertà individuali (spesso più prudenti e responsabili dei criteri adottati dai capitani d’industria nelle loro fabbriche) da reprimere e sanzionare. Spetta allora a una critica politica il compito di passarle al vaglio. Smontando in primo luogo la pretesa che l’ordine economico debba conservarsi identico attraverso qualunque tempesta che travolgerà invece inesorabilmente la vita di tutti i cittadini.”

In tutti i casi la working class o quello che rimane di essa, gli operai nelle fabbriche superstiti, le false partita iVA, le ditte individuali ridotte in miseria, i riders, i camerieri, i lavoratori dello spettacolo, stanno pagando un debito ormai incolmabile. Giuste e sacrosante quindi le battaglie sul salario minimo e sul reddito incondizionato di base. Ma il virus ci deve spingere oltre a queste considerazioni: bisogna chiedersi, una volta per tutte o cominciare almeno a farlo in tutti i luoghi possibili, che cosa è il lavoro, che cosa è necessario produrre, quali sono i luoghi e i tempi essenziali della vita e cosa significa veramente essere, vivere, pensare e sognare oltre il paradigma del lavoro e oltre il modello capitalista attuale.

Tecnologia e futuro

La pandemia in corso sembra aver accelerato quella trasformazione sociale e antropologica che ci sta attraversando decisamente in questi ultimi decenni. Il capitalismo digitale (da Google a Facebook, da Amazon a Instagram, a tutte le società del settore della robotica e della sorveglianza) sta mettendo a regime tutti i nostri desideri, movimenti, post, tweet, emozioni, parole, idee e molto altro ancora. Attraverso algoritmi sempre più precisi e database più completi, tutto, ma proprio tutto condizionerà le nostre vite e le nostre città, il nostro orizzonte di senso e il nostro immaginario collettivo. “È in questo spazio di attesa, di emergenza non ancora «normalizzata», che si annidano i bisogni di radicalità: non basta dire «no», «forse», «sì ma», serve pensare a mettere in discussione l’intero sistema su cui poggia l’estrazione e l’utilizzo dei Big Data, la vita delle piattaforme e quella dei lavoratori che hanno come compito principale quello di nutrire le macchine di dati.” (Simone Pieranni).

Ma forse c’è in gioco qualcosa di più. Nel grande inferno di Auschwitz e in quei funghi velenosi di Hiroshima e di Nagasaki dovevamo vedere qualcosa che riguardava una tecnologia fuori controllo. Le analisi di Anders nel suo libro “L’uomo è antiquato” non dovevano passare inosservate. Anders parte dalla vergogna Prometeica che l’uomo prova di fronte alle macchine da lui inventate. Per il filosofo tedesco noi umani siamo stati superati dalle macchine e i prodotti della nostra capacità tecnica sono superiori a quel che sembrano: il mondo sta diventando una macchina. Qui non si tratta di avere una visione negativa o pessimista sulla tecnologia o nostalgica per il passato che non c’è più, ma di chiederci come, attraverso l’uso equilibrato di umanità, natura, giustizia e scienza , possiamo continuare a vivere. Se prima il problema era come dobbiamo vivere, ora la domanda principale è: vivremo ancora? Il virus, in qualche modo, non ci sta chiedendo forse una riflessione seria e profonda su che cosa saremo, in che città abiteremo e se ci sarà futuro per noi nella terra?

Virus come linguaggio

Il virus sta causando una serie di morti interminabili e indefinite, situazioni di povertà e sofferenza in ogni parte del pianeta e crisi economiche e sociali di natura insormontabile. Ma detto questo non possiamo non riconoscere che il virus ormai è diventato parte di noi, delle nostre parole, del nostro pensieri e del nostro futuro: linguaggio interminabile, sottile, discontinuo, produttore di senso oscuro e di spazio precario. Il virus sta dettando i tempi dei telegiornali, delle tv spazzatura e dei social ossessivi. Fake news, complottismo e politica sporca hanno trovato nel Covid un terreno fertile per sopravvivere e inserirsi nel nostro modello cognitivo già sensibilmente provato e trasformato.

Ormai non c’è frontiera tra l’informazione reale, il resto dei programmi d’intrattenimento delle tv o i video virali che girano su Instagram e su TikTok, che ci circondano e ci avvolgono senza respiro. Le conseguenze di questa epidemia virale, linguistica e psicologica potranno essere devastanti nei prossimi anni a venire.

Bifo si domanda: “siamo destinati, soprattutto le generazioni giovani, sono destinate a una lunga fase traumatica cui può seguire una sorta di epidemia depressiva, una disattivazione dell’empatia fisica, del desiderio?”

Il linguaggio ha permesso di evolvere il genere umano fin dai primordi della storia, ha permesso la nascita delle civiltà, del racconto orale, della scrittura e della memoria storica; ma adesso gli strumenti concettuali odierni, quelli derivati dal 1900, la critica del sistema capitalista per un futuro diverso, la tecnologia, i suoi algoritmi e big data non stanno favorendo un altro modello di società e di esistenza umana. Il linguaggio è diventato un virus che vuole sopravvivere a se stesso, ma che non riesce a vedere e a immaginare un luogo futuro e una vita vera.

Città e relazioni

Le nostre città derivano da una storia profonda che le ha attraversate, modificate radicalmente e inserite in un contesto economico e sociale sempre più globale.

Negli ultimi secoli siamo passati dalle prime città mercantili a quelle industriali, keynesiane, post fordiste e globali in pochissimo tempo. In questi passaggi abbiamo subito le regole dell’accumulazione del capitale, il capitalismo finanziario e anche quello digitale, le sue mille contraddizioni e le resistenze, le lotte di classe e quelle delle singole comunità. Le città si portano dietro trasformazioni economiche, modelli di sviluppo, divisioni sociali e creazioni di spazi di produzione, piani di consumo e griglie di controllo. Ma dietro queste contraddizioni economiche vi sono le storie delle persone, le lotte degli operai, le rivolte dei quartieri e le manifestazioni e i movimenti politici del passato. Un mondo di relazioni e amicizie, una comunità inconfessabile di sogni e desideri, di idee e di speranze condivise, di lotte e di progetti che devono tornare a essere parte costitutiva delle nostre città. In questi profondi processi di trasformazione delle nostre città si formano le coscienze individuali e i desideri dei cittadini ma, al momento, “gli io sono condannati a non confrontarsi con un Noi, andando a dissolversi in un sé sincronizzato, planetario, mondializzato” (Bernard Stiegler – Amare, amarsi, amarci”), con conseguenti sofferenze fisiche, esistenziali, sociopatie, psicopatie, aumento del consumo di alcool e droghe pesanti, violenze di strada, violenze domestiche, soprattutto contro donne e bambini, suicidi e comunque una solitudine dilagante.

Se vogliamo sopravvivere davvero al virus, alle nostre paure e al nostro futuro privo di futuro, allora dobbiamo ricostruire e rifondare le città a venire sulla base delle nostre conoscenze, delle nostre aperture, dei nostri sogni e della nostra memoria collettiva.

Perché è necessario unire le linee del tempo ai luoghi del futuro e ricominciare a credere che tutto quello che hanno vissuto, sofferto e sognato le persone che non ci sono più, nei quartieri delle città, nelle colline e nel mare, gli operai di un cantiere in lotta, tutti i migranti della nostra storia millenaria e tutte le donne che hanno subito violenze e ingiustizie, tutti i morti delle guerre inutili, dei lager dell’orrore e di questo virus che sembra indefinibile e interminabile… sarà ancora vivo e profondo nelle nuove città che verranno.

 

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