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Bestie, bastardi, Giuda. Tre virtù dell’operaio sociale oggi

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Esattamente un anno fa, il 13 settembre 2016, iniziava lo sciopero dei lavoratori Iscot nell’indotto Piaggio a Pontedera, Pisa. Una battaglia importante durata oltre due mesi che ha messo in gioco giovani lavoratori, interinali per avere contratti migliori.

L’ultima ruota del carro nelle gerarchie di fabbrica, quelli che pulivano le macchine. Non solo per la vittoria, non solo per i contratti migliori strappati con i denti, non solo per il coraggio dimostrato ma per i suoi caratteri di medietà questa lotta ci sembra importante. La storia di 7 giovani operai è simile a quella di centinaia di migliaia di proletari in questo paese. Colpisce la distanza di queste proporzioni: è una goccia nel mare, si dirà. Certo, ma il loro vissuto resta una pista che indica delle possibilità di organizzazione e di conflitto, un’indicazione per i militanti politici per cercare nuovi incontri, un esempio per altri giovani in attesa della chiamata dall’agenzia interinale sulla panchina del parco di quartiere o al bar. È riproducibile. Non come un modellino, ma nelle figure che coinvolge, nelle energie che sprigiona. Un processo rivoluzionario cresce quando delle possibilità sorgono laddove prima non se ne scorgeva traccia. Un po’ è così: i più sfruttati, i più sedotti dal padrone, i più ricattati sono diventati le bestie peggiori per i capi, la polizia, i padroni. Hanno tradito la fiducia di questi per fare il proprio interesse e anche se limitatamente a quei piazzali di una zona industriale di merda della Toscana non diversa da tante altre in Italia, hanno comunque parlato a tanti.

Verso il G7 su scienza e Lavoro di Torino pubblichiamo un contributo sui caratteri e le indicazioni che lotte come quella della Iscot forniscono rispetto alle possibilità di organizzazione conflittuale su uno spettro generazionale ampio, violentemente messo a lavoro anche nel tempo del non lavoro, fidelizzato e sfruttato con illusorie promesse di emancipazione attraverso il lavoro. C’è una cosa che il conflitto disvela con chiarezza: non c’è lotta sui contratti interinali che non sia lotta contro il lavoro. Da dove parte? Come parte? Come ci si può organizzare? Queste domande sono al centro dei diari di lotta di uno degli operai coinvolti nella vertenza, un opuscolo in forma di ebook che pubblicheremo nei prossimi giorni e di cui invece le righe che seguono costituiscono un’appendice di riflessione più analitica nata dalla discussione collettiva tra operai e militanti politici autonomi che si sono impegnati nella battaglia ai cancelli della fabbrica di Pontedera.

 

 

 

Bestie, bastardi, giuda. Tre virtù dell’operaio sociale di oggi

 

La lotta dei lavoratori Iscot è stata un fatto eccezionale; sia nelle proporzioni – 7 operai contro una multinazionale; 60 giorni di sciopero, 52 di presidio permanente – che nelle caratteristiche soggettive – forza lavoro giovane e interinale ma soprattutto testarda, ostinata, conflittuale.

E’ stata una battaglia vera, di quelle che i militanti politici auspicano leggendo “Vogliamo tutto”, ma che in verità ritroverebbero di più nei romanzi di Steinbeck.

Nel vivere questa esperienza collettiva i ragazzi che pulivano queste macchine di verniciatura dei pezzi di veicoli auto e moto sono cambiati. La loro forza è mutata, sviluppando l’attitudine a tirare fuori quello che si ha dentro invece che “ingoiare il rospo”, a batterti per affermare una ragione fondata sul giusto (perchè comune) interesse della propria parte. Ma sono cambiati più in generale “i rapporti”, quelli che regolano anzitutto i legami tra i loro corpi e quelli delle macchine; quelli “tra di loro” e quelli nei confronti dell’identità astratta del comando aziendale: un avatar proiettato dalle menti di ogni operatore nelle reti produttive gestite da smarthphone.

Il cambiamento è frutto di un processo di lotta che ha stravolto degli equilibri non più tollerati. Innanzitutto l’approfittarsi di una condizione di subalternità ha dei limiti: la percezione soggettiva della saturazione di questi, fa esplodere una bolla gonfiata dallo sfruttamento del proprio lavoro. “Ora basta!”, hanno detto con lo sciopero, montando le tende, costruendo il presidio permanente, respingendo i crumiri e rifiutando compromessi al ribasso.

I lavoratori interinali sono un segmento sociale fondato su di una paradossale condizione di vita dimidiata. Sono divisi tra il frenetico procacciarsi un’assunzione da disoccupato e la fatica insostenibile dell’allungamento della giornata lavorativa (che per alcuni ha toccato anche le 24 ore di seguito), non appena salariati. E’ così che la contraddizione tra mancanza di lavoro (disoccupazione) e aumento della produttività si traduce in una nuova lingua, ostile a quella dei padroni e sconosciuta a quelle dei sindacati. Non c’è lotta per il rinnovo dei contratti interinali possibile senza lotta contro il lavoro. O meglio, per non restare senza stipendio -la condizione dei precari e degli interinali – dobbiamo rifiutarci di lavorare proprio quando ci assumono: just in time, just make strike. Incredibile ma reale: i precari hanno smesso di essere vittime e si sono scoperti potenti predatori. Quelli senza tutele hanno trovato la loro forza. Coloro che avevano un lavoro a termine dentro un subappalto si sono scaraventati contro i ricattatori.

Ma come? Rischiando molto, se non tutto. Da essere interinali con contratti 8 ore la settimana, strizzati e spremuti anche il doppio delle ore al giorno e poi lasciati a casa una volta al mese, la mobilitazione ha prodotto nuove garanzie sociali e nuova organizzazione del lavoro, per quanto pertiene la storia del capitale. Ai ragazzi ha lasciato contratti diretti a tempo indeterminato con l’aumento del salario, la sostituzione in tronco del precedente odiato Capo impianto; e più tranquillità per potersi ammalare, per potersi riposare, per poter vivere. Nessun elogio del vertenzialismo, sia chiaro, l’equilibrio è sempre precario e i tentativi di cattura e di restaurazione sono tanto più efficaci quanto più tenue è la presa sul timone della nave da guerra.

E’ capire la posta in gioco, intanto, che è importante. Capire che sotto c’è la fame di cambiamento, di trasformazione; il desiderio di miglioramento sociale – psicofisico – indistinguibile da quello di giustizia. Irraggiungibile se slegato da quello di contare, di valere, di potere. Addirittura questo desiderio può risultare frustrante, nocivo, stancante, se non prodotto effettivamente da una contrapposizione intensa. Nella “normalità” dello sfruttamento, infatti, questo desiderio è represso e rimosso, rimpiazzato dalla speranza del fatalismo e da un atrofizzante nichilismo.

 

E’ una storia questa dei lavoratori Iscot da leggere per capirci qualcosa di più su cosa sia oggi la soggettività dei proletari. Nello specifico cosa sia quella dei proletari che lottano contro l’impoverimento complessivo delle proprie capacità, contro l’industrializzazione delle aspettative, contro l’alienazione che si fa psicosi nella mancanza di possibilità a fronte della ricchezza disponibile.

Bestie.

Innanzitutto: poveri e produttivi, produttivi perchè poveri. La legislazione sul lavoro ha liberalizzato le assunzioni di impiegati tramite agenzie di somministrazione lavoro temporaneo: nessun vincolo ha più l’impresa per rispettare delle quote di interinali a fronte della “sua” forza lavoro diretta. Se gli interinali sono stati disoccupati nei due anni precedenti, se hanno meno di 29 anni, se hanno più di 51 anni, non c’è limite per l’impresa all’assunzione di questa forza lavoro. Ed infatti la Iscot, appaltante della Sole, aveva assunto il 100 per 100 della propria forza lavoro tramite la Sinergy, un’agenzia interinale tra l’altro legata a Stirpe – il patron della Sole s.p.a.. I lavoratori della Iscot sono stati formati affamandoli di reddito e sollecitando loro nuove possibilità di riscatto (individuale). Fare le pulizie e scrostare olio e vernici da pezzi di metallo non ha a che fare con lo spirito di sacrificio e l’orgoglio “working class” derivante dalla fatica del lavoro contrapposto ai parassiti imprenditori; è invece, nel neoliberalismo della crisi del 2016, una missione cui “votarsi”. Per “valorizzarsi”, per un salario, per una promessa, ma soprattutto per l’accesso ai consumi. I lavoranti – giovani adulti maschi – hanno da pagare, hanno bisogno di accedere a linee di credito, per ripianare debiti e per farne di nuovi: per comprarsi la macchina, per l’affitto, per curarsi i denti, per mantenere la riproduzione della propria vita familiare finalmente oltre i sacrifici dell’arrangiarsi, cui sono abituati. E’ nel momento dell’assenza di retribuzione, che si gonfiano le spese ed il “salario di fatto” passa da attività differenti da quelle normate dai contratti di lavoro: magari da una magica statistica sulla vincita alla slot machine, o piuttosto dall’aiuto della rete familiare o di amici in cambio di qualche attenzione. Sicuramente non passa dallo Stato, i cui “benefits” sono scomparsi rapidamente dall’orizzonte della sussistenza proletaria.

Questo tempo di non lavoro costituisce la premessa fondante della soggettività interinale. E’ il tempo del debito, e non è raro che sia il periodo anche dell’abbrutimento, degli sclerati andirivieni passati nel quartiere per sopportare la cronica “mancanza” che rischia di diventare anche impotenza e fallimento. E proprio quando il limite sta per essere superato – il limite dell’insufficienza del salario di fatto alla propria riproduzione sociale – che una nuova valorizzazione è “dietro l’angolo”. Nuove occasioni di riscatto che passano dall’esorcizzare la paura del ritorno all’abbrutimento, nella religione del lavoro cui essere autoinvestiti.

In prima battuta quindi il lavoro interinale si configura come prestazione compensativa del proprio debito e di espiazione della colpa del fallimento pregresso. Il lavoro erogato quindi come “gratitudine” nei confronti di chi ha offerto quell’occasione di “redenzione”.

Da parte del padrone il lavoro interinale è iperproduttivo: modellabile a dismisura per un’organizzazione del lavoro tarata sui picchi di produzione. Il padrone è infatti anche disposto a pagare di più per questo lavoro, anche il triplo all’ora (denaro che ovviamente va all’agenzia). Ed in quella valorizzazione sta un surplus di profitto costituito dalla soggettività iperproduttiva degli interinali: lavoratori “a noleggio”, la cui opera si configura come in costante sollecitazione tra autonomia e disciplinamento. Parliamo di una forza collettiva, che assume su di sé i rischi e gli oneri del comando dell’impresa. In cambio di cosa? Turni massacranti che permettono l’accumulo di salario per i tempi di “magra”. Ma più di ogni altra cosa l’aspettativa di essere richiamato a lavoro, addirittura di “fare carriera” e di scalare le gerarchie aziendali. Un’aspettativa che s’incorpora in una organizzazione del lavoro in cui gli interinali sono continuamente “mobilitati” tra l’alto e il basso e tra le differenti scale orizzontali delle mansioni e delle gerarchie aziendali. Ovviamente in concorrenza tra di loro: nessuno scandalo qui, è solo il moderno funzionamento del capitale umano, in perenne competizione! Infatti la cooperazione capitalistica competitiva è (eso)costruita, sull’incorporazione delle capacità e dei saperi e delle relazioni di chi vi lavora, dentro i sistemi macchinici: “noi li alimentiamo e noi ci desertifichiamo!” In cambio di promesse d’integrità e di comando e di salari che possano nutrire la finanza, vera madre-terra della odierna riproduzione proletaria. Per farlo bisogna “crederci”, non solo obbedire.

Qui c’è un doppio campo di scontro: da una parte quell’attesa promessa è in modo sistemico tradita nei confronti dei lavoratori interinali – come corpo collettivo – pena l’abbassamento immediato degli standard di produttività aziendali. I lavoratori Iscot hanno inflazionato e spinto, curvandone la direzione – per tutti – quella promessa, consapevoli della propria forza. Dall’altro lato, per inflazionare collettivamente quella promessa è indispensabile rompere e distruggere quelle mistificazioni politiche che frantumano e gerarchizzano la cooperazione produttiva tra i lavoratori: la lotta contro il padrone è conflitto contro l’interiorizzazione del comando! La liberazione dal lavoro passa dalla sconnessione delle gerarchie aziendali, ed è un processo collettivo che trasforma i comportamenti e le opinioni non solo in riferimento alla controparte ma soprattutto a se stessi. Quello che nella lotta viene denunciato come orribile e sconvolgente, prima – dentro il lavoro – era considerato normalità ed il “giusto prezzo da pagare”. Quello che ora viene ricordato come sofferenza prima era vissuto come speranza. La valorizzazione è ambivalente!

 

Bastardi.

Di norma, lottare da interinali comporta la perdita del tuo posto di lavoro. Comporta subire la discriminazione dalla tua agenzia interinale, che immetterà il tuo nome in una black list da far circolare alle altre agenzie interinali. Lottare, infine, comporta lo stop di quelle linee di credito, ovvero rifinire nel baratro dell’insolvenza e della paranoia di vedersi estorcere dai “creditori” i beni ed i servizi acquistati. Lottare da interinali significa rischiare molto. Allora vale la pena farlo bene e con il massimo risultato possibile. Con efficacia e cinismo, non avendo scrupoli nel voltare le spalle a coloro – padroni – che hanno bisogno di te, proprio in quel momento. Voltargli le spalle e lasciarli nella mmerda, a coloro che ti hanno aiutato dandoti il lavoro. A coloro grazie ai quali hai fatto il prestito per comprarti la macchina nuova. A coloro grazie ai quali non hai più dovuto fare quelle cose che non ti piace tanto fare. Ma d’altra parte il mercato è una giungla ed è bene tutelare i propri interessi, no? E allora perchè dovresti ancora una volta far finta di credere alle loro storielle, quando sai che non saranno mai rispettate e che anche questo mese il contratto ti scadrà e rimarrai col culo al fresco senza stipendio per altri mesi. Perchè umiliarsi ancora, perchè impegnarsi, perchè sbattersi se in fondo neanche quel piccolo favore ti hanno fatto quando ti serviva? Già, perchè a dispetto della retorica della debolezza dei precari, gli interinali possiedono un rapporto di forza tale da impensierire il vice presidente di confindustria e le questure di mezza Toscana. Il timore del loro rifiuto sta nel fatto che quando vengono chiamati per quel determinato tempo la loro prestazione rende un surplus di profitto per l’impresa data dal ranking cui appartiene. Spieghiamoci meglio: a fronte di un’azienda che produce per il mercato – just in time – ovvero sui picchi di produttività, il mancato assolvimento di quell’azienda al proprio ruolo nella catena globale del valore le fa perdere credito e posizione, e rischia di essere sostituita da altre aziende più competitive. Quello che l’impresa risparmia non pagando i lavoratori per tutto l’arco mensile ma solo per quando gli serve, la espone in realtà a molti rischi. Perchè è l’azienda che ha bisogno dell’interinale per produrre quel surplus! “Io interinale lavoro per te, ma se te non mi assumi fisso, non mi dai quelle garanzie di cui ho bisogno, io sciopero e blocco quel processo di produzione”. Il processo deve essere rapido ed intenso, radicale e determinato. Poiché in quel momento il rapporto di forza è alto, e l’azienda, come nel caso della Iscot, deve cedere. L’impulso endogeno alla classe è quello di bloccare e di incenerire le forme del comando, dell’imposizione oramai percepita come estranea. Questa lotta depura le ipocrisie, rende nitide le relazioni, ricompone e libera il “lavoro sociale” dal contenuto di comando instillato per impedire, frenare e scomporre l’alto tasso di socializzazione del lavoro.

La questione è quella della soggettività: ovvero come si producono quelle caratteristiche necessarie al rovesciare l’assunzione del rischio d’impresa in assunzione del rischio della lotta? Come si rompe la paura? La completa messa in discussione di senso della propria attività di lavoratori interinali, apre con urgenza il tema della formazione della soggettività disponibile alla lotta. Se il capitale usa il tempo del non lavoro come vettore di produzione della soggettività interinale, come contro\utilizziamo questo tempo come primo momento di organizzazione della lotta? Non è tanto il “non aver più nulla da perdere” che muove il conflitto sociale. E’, piuttosto, una certa abitudine e cultura e formazione alla lotta, ovvero al difendere il proprio interesse ed a organizzare le strategie più utili per ottenere il risultato desiderato. I lavoratori Iscot hanno iniziato a lottare quando sapevano di possedere un rapporto di forza. lo hanno fatto poiché non avevano paura di soccombere di fronte ai bisogni della riproduzione sociale. Questo perchè quei soggetti si conoscevano già nella lotte per non pagare più l’affitto, per ottenere le case popolari, per farsi pagare dalle Istituzioni -quando sei senza reddito – pannolini, cibo, latte etc.. Nel tempo del non lavoro era già cresciuta una pretesa di appropriazione della ricchezza sociale. Senza salario come vivo? Il rapporto territorio\fabbrica è quindi un rapporto da stravolgere: non più territorio come fabbrica sociale dove soccombere nella schiavitù del debito. Ma territorio come lo spazio della riproduzione come luogo di una conquista sociale, di una pretesa da riversare ed imporre contro l’impresa. Dalla lotta Iscot emerge con chiarezza l’inscindibilità assoluta del rapporto salario\consumo e impresa\quartiere. Una nuova contraddizione avanza, senza sintesi: ad intermittenza di reddito, intermittenza di spesa! Senza salario sufficiente, anche il “pagare” i servizi ed i beni necessari deve autoridursi!

 

Giuda.

Ma come iniziano a lottare questi ragazzi, e come si esercita la ribellione? Perchè si scontrano e quali pratiche utilizzano? E’ di leve quindi che andiamo alla ricerca nei documenti auto-prodotti dalle lotte di questi interinali. Leve che aprono fratture capaci di distruggere una socialità ed un’informalità costruita sul sospetto, la concorrenza, la menzogna. E per farlo queste storie collettive vanno lette a partire dai meccanismi di insubordinazione, da quello che li precedeva e dalle reazioni scomposte di chi li ha subiti.

Uno degli episodi scatenanti la messa in crisi dell’organizzazione del lavoro e del comando della Iscot sui lavoratori interinali è stato l’incidente in auto durante il tragitto verso il lavoro di uno degli interinali “responsabili”. Questo tema ha a che fare con il tradimento di una promessa di realizzazione e ascesa sociale e con la mistificazione in quella promessa di lavoro non retribuito. Mobilità e comunicazione sono vettori imprescindibili per l’organizzazione capitalistica dei lavoratori. Non sono soggette ad alcun vincolo dal basso del corpo sociale dei lavoratori – devono farlo e basta! Sono sfruttate capacità e risorse senza ricompensa ed i lavoratori interinali sono formati sulla convinzione del doversi assumere completamente i costi della riproduzione dello stesso lavoro. Ovvero dall’organizzazione dei turni alla logistica dell’impresa, dai pasti alla sicurezza, tutto è a carico dei lavoratori. L’azienda risparmia e “investe” il proletario di responsabilità, compiti e mansioni un tempo funzioni dirigenziali. Con quell’incidente, riconosciuto come infortunio in itinere, sono saltate delle pacificazioni. Il contratto di lavoro dell’interinale scadeva poco dopo l’infortunio, e nonostante la posizione da “responsabile”, l’agenzia e Iscot, per non pagare una quota assicurativa contemplata nel contratto di assunzione interinale e per non pagare mutua e infortunio, affermarono che il lavoratore sarebbe stato “messo a casa”, e solo successivamente, richiamato a lavoro. Questo fatto è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso ed ha messo tutti gli interinali sullo stesso livello d’interesse. Da parte proletaria c’è consapevolezza che lo sfruttamento avviene ulteriormente nel non pagare servizi e prestazioni comuni alla forza lavoro, bensì differenziando tipo “premi” briciole di quanto dovuto, in base alla fidelizzazione all’impresa.

Basta poco per trovare i motivi per cui scontrarsi: non c’è niente che vada bene. Solo che non sono sufficienti i propositi per determinare il cambiamento. Vanno messi in pratica valorizzando contro l’impresa l’integrazione e l’aderenza della forza lavoro interinale alla (auto)gestione del processo produttivo. Per sabotarlo e bloccarlo. La politica è logistica: ai discorsi devono seguire i fatti. Alla teoria, l’azione. Alla riflessione, il movimento. Ed in fretta! “Prima che se ne accorgano e ci prendano le misure. Prima che si riorganizzino. Prima che ci scada il contratto”. E quindi: ” cosa si fa? come lo facciamo? chi lo fa? quando partiamo? come lo sosteniamo? chi ci va a parlare? …gli deve arrivare un destro sinistro così sodo che quando se ne accorgano hanno già firmato a tutti i contratti”. L’imperativo è fargli male, senza essere prevedibili. Senza perdere la loro fiducia, che significa marginalizzazione dal processo produttivo e poi neutralizzazione. “Senza la loro fiducia il nostro lavoro non si può fare. Perchè siamo noi i controllori di noi stessi. E’ di questo che hanno paura, che smettiamo di controllarci ed iniziamo a controllare loro.” Qui sta il sabotaggio: la rottura della fidelizzazione e dell’integrazione proletaria alla macchina produttiva. La distorsione del nervo che filtra le operazioni vitali alle macchine.

Il problema diventa quello di come praticare la lotta, come combinare la radicalità del processo di soggettivazione ad una adeguata accumulazione organizzativa. Come legare verticalità politica e logistica. Per dare continuità all’evento, bisogna essere pronti a mettere in discussione tutto!

Di sicuro la sindacalizzazione ordinaria è nemica di questo processo poiché espone ed esplicita un rapporto di differenza dall’organizzazione del lavoro che se è tollerata è solo perchè funzionale al comando dell’impresa, in senso di controllo. Ovvero poiché è esterna al processo produttivo, non come conquista autonoma della classe, ma come separazione privilegiata di alcuni suoi componenti: come rendita di posizione! Esporsi in queste forme è impossibile, prima che dannoso. La natura clientelare del sindacato, minimalista e vertenziale è già assorbita dall’arbitrarietà del comando sul lavoro. Ogni altra prerogativa dell’organizzazione di base è da ri-conquistare nell’anonimato e nella maturazione di un nuovo rapporto di forza!

 

 

Infine.

Dalla lotta degli interinali Iscot quello che viene fuori è che i proletari non hanno paura di attaccare il padrone, non hanno paura di scontrarsi. Hanno paura di rimanere senza pane in bocca. Il rapporto dimidiato di questo segmento di forza lavoro precaria pone costitutivamente il nodo del conflitto sociale sullo stesso terreno del salario e del consumo.

La simbiosi tra la valorizzazione capitalistica con l’impoverimento della vita iperproletaria ci parla di come dare continuità agli eventi di rottura. Ci parla di quali processi costituenti di lotta si aprono e di come per espandere la frattura temporale data dalla lotta ci si debba organizzare per vivere lottando (e viceversa). Nessun processo di verticalizzazione conflittuale è capace di durare un minuto in più il tempo di un incendio senza sviluppo della capacità logistiche e organizzative per la propria riproduzione come comunità in movimento. Anche su un piazzale di cemento in mezzo alla campagna urbanizzata di Pontedera questo nodo è stato affrontato in maniera determinante per vincere. La cassa di resistenza, le tende, la cucina, la sala e lo spazio per bimbi: nessuna lotta si da senza lo sforzo della sua riproduzione come vita “altra”.

 

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