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In ogni casa nessun rimorso

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A partire dalla necessità di socializzare alcune riflessioni sul “punto di non ritorno” che ha raggiunto la lotta sulla casa, proponiamo questo testo. Si tratta di riflessioni sorte sul terreno di una militanza sviluppata in un territorio specifico, quello della città di Pisa, ma indirizzate anche ad altri contesti. Oltre noi per l’organizzazione di un conflitto complessivo sull’abitare in questa fase della crisi permanente.

Ritornando al punto di “non ritorno”, ci soffermiamo su due aspetti. Uno riguarda la “dimensione sociale e politica” più complessiva dello scontro sull’abitare; l’altro è il dato “soggettivo”, ovvero le caratteristiche collettive che ha assunto il percorso di lotta per la casa nella nostra città negli ultimi 10 anni.

 

Lo scontro sull’abitare: un terreno inesauribile

A livello generale la peculiarità della fase in atto è la “tensione” sociale che esautora gli spazi di intermediazione collettiva che fino ad oggi hanno ammortizzato il conflitto sociale sul diritto alla casa. Esautorazione prodotta sia dalla cronicizzazione della crisi economica riversata nell’aumento dei “debiti privati” di tutti coloro che non posseggono una casa di proprietà (non ipotecabile); sia dal progressivo espandersi delle politiche di contenimento del debito pubblico nella forma dell’austerità e quindi dei tagli dei servizi pubblici, in particolare dell’edilizia residenziale pubblica, delle politiche abitative universitarie e di tutti i finanziamenti integrativi agli affitti.

Sul versante della spesa “familiare” il fenomeno sociale che caratterizza questa epoca è l’insolvenza, la morosità e tutto ciò che è connesso con la produzione di una soggettività che accumula debito e cerca, senza mai riuscirci, di mettersi in pari per vincolarsi ai processi di integrazione. La “curva” crescente degli sfratti per morosità incolpevole è accompagnata dall’espandersi di un perimetro all’interno del quale la fascia sociale – intergenerazionale e interetnica – di “poveri” diviene oggetto di politiche istituzionali punitive e di comando. L’insostenibilità della rendita a fronte del reddito sociale viene mantenuta tramite violenti dispositivi di coercizione al pagamento e sotto la minaccia di “finire in mezzo alla strada”. La cosiddetta “alta marginalità” oggi è in realtà uno dei segmenti più dinamici e mobili entro il quale premono “diversi mondi”: giovani ex studenti, migranti “storici” sedimentati sul territorio ma “espulsi” dai circuiti produttivi in ristrutturazione, ceto medio rapidamente “scoppiato” dalla bolla finanziaria dalla crisi del lavoro autonomo; proletari “nativi” le cui reti familiari sono disgregate (divorzi, mantenimenti, decessi..), etc… Appena al di sopra di questa “linea” mobile, la normalità dei “solvibili” è costantemente costruita da una iperproduttività il cui prezzo sociale, sanitario, culturale è visibile nella generalizzazione dell'”orlo della crisi di nervi” collettiva.

L'”ideologia” o se vogliamo la “cultura”” dominante” di questo stato di iperproduttività è segnata da individualismo, carrierismo, razzismo e invidia sociale. Un “rancore di gruppo” represso nelle maglie di promesse tradite dall’incedere dei meccanismi di produttività che “tengono sul filo” una generazione sociale intersecata da differenti profili e storie collettive. Sono le storie di chi si rivolge al welfare pubblico per la casa con vergogna e disincanto poichè “abituata” a farcela da sè, ma non appena si palesa loro “il lato umiliante delle Istituzioni”, lo vive come tradimento e ingiustizia, reagendo con ostilità e rifiuto delle regole sociali dell’ “aspettare il proprio turno”. Regole contestate individualmente nel non vedersi riconosciuti quei diritti a fronte dei propri sacrifici, e di cui viene genericamente contestata l’arbitrarietà sotto forma di “privilegio” nei confronti di determinati “categorie” particolari (gli stranieri, i furbi, gli amici degli amici… etc).

Questo stato di difficoltà sociale collettivo intercetta differenti settori e generazioni e si riflette nella frequente contestazione individuale dei “soprusi” che sottendono ai contratti “libero mercato” che ratificano il potere della rendita e della proprietà privata sulle abitazioni. Dette contestazioni avvengono sia sulla scarsa qualità rispetto al suo prezzo della merce-casa affittata, sia rispetto al sacrificio (vissuto come ingiustizia e potenzialmente rifiutato) che comporta l’onorarabilità “del contratto”. Questa “fatica” è approfondita a fronte di una differenza di classe tra abitante e proprietario. La condizione dei “morosi”, degli intermittenti al pagamento, coinvolge strati sociali inediti e “vergini” dal punto di vista della partecipazione a conflitti collettivi. Segmenti e gruppi di persone la cui funzione produttiva è quella di attivarsi in ruoli, attività e lavori “comuni” nella nostra città dei servizi, in cambio oggi di un salario sociale di fatto appena necessario alla propria semplice riproduzione.

Questa dimensione sociale si scontra sempre più frequentemente ed in modo spontaneo con gli apparati predisposti dalle istituzioni alla gestione del welfare. Apparati sottoposti ad una ristrutturazione che passa dalla razionalizzazione al ribasso dei servizi “pubblici” tramite tagli diretti e l’introduzione di criteri di “merito” e di procedure burocratiche tese ad individualizzare l’accesso a detti servizi, a produrre dei “filtri” e delle “gabbie”.

Inoltre le politiche di austerità hanno definitivamente rotto quella promessa di accesso alla casa popolare come prospettiva garantita anche anche solo ad alcuni segmenti proletari. Come anche le politiche universitarie hanno imbrigliato dentro maglie sempre più fitte, l’assegnazione di alloggi studenteschi. Il conflitto per “mantenere” delle garanzie e quello per accedervi e conquistarle sta per esplodere e il configurarsi di nuove ondate di contrazioni finanziarie alla spesa pubblica può determinare scenari di apertura per dei movimenti di differenti settori sociali sul terreno dell’abitare, dei servizi pubblici e dei conflitti contro la rendita.

 

Territorializzare un conflitto

Intensificazione dei ritmi “produttivi” e politiche di “abbandono” ed espropriazione di garanzie pubbliche e diritti sociali, sono gli assi su cui le politiche del Partito Democratico veicolano questo nuove ordine socioeconomico neoliberale plasmando i territori.
Le lotte per la casa, dalla nascita dal Progetto Prendocasa 10 anni fa ad oggi, vedono nella nostra città più livelli d’intervento politico conflittuale. Il bivio a cui siamo di fronte è anche di carattere soggettivo nella misura in cui queste battaglie sociali hanno formato diverse generazioni di compagni e di compagne che, nella crisi del patto sociale di governo precedente, hanno aperto varie contraddizioni e avanzato nuove domande di cambiamento radicale. In primo luogo un protagonismo diretto di militanti giovani, universitari e post universitari che a partire dalle occupazioni di case, di edifici, palazzi, uffici e sedi varie, si sono riappropriati di quote della ricchezza sociale sottratta alla rendita e direttamente redistribuita sotto forma di “tempo liberato” dal ritmo del lavoro o dello studio intensivo. In secondo luogo il legame e la trasformazione di questa militanza autonoma di riappropriazione si è saldata, dal 2013 ad oggi, con vari movimenti sotterranei della classe degli “insolvibili”. Le mobilitazioni contro gli sfratti e per abbassare gli affitti, l’azione diretta nei picchetti, la contestazione collettiva alle dinamiche di isolamento, colpevolizzazione e impoverimento prodotta dai livelli “bassi” delle Istituzioni (i dirigenti “tecnici” del servizio sociale) fino a quelli “alti” come Assessori (Sindaco compreso) hanno configurato un radicamento della lotta di classe dell’abitare e l’emersione di nuove figure militanti con proprie reti sociali.

Questa dinamica è andata di pari passo con il radicarsi di comportamenti conflittuali dentro territori specifici: le cosiddette “periferie”. E’ l’esperienza del quartiere di Sant’Ermete che da alcuni anni dura nel produrre nuovi bisogni, nuovi intrecci di campi di lotta, nuova formazione politica, umana e militante. In questo quartiere si è formato un comitato fatto da decine di abitanti di diverse generazioni. La molla della riapertura di uno spazio sociale ha attivato attorno allo sviluppo di legami, socialità e riconoscimento collettivo di una condizione comune di “espropriati”, un conflitto rivolto direttamente alle istituzioni, sulla questione del “piano di riqualificazione delle case popolari”. Le periferie infatti non sono semplici ghetti, zone escluse o marginalizzate – come una sinistra vorrebbe rappresentare. Piuttosto ricalcano quelle caratteristiche ambivalenti di un territorio sottoposto a mercificazione. I piani di riqualificazione tornano come invarianza di ogni blocco di case popolari e in ogni periferia del paese: Giambellino di Milano, Sant’Elia a Cagliari, Vallette a Torino etc. Etc. Non si tratta solo di svendere, come dettava l’art. 3 del Piano Casa, ma di rimercificare, valorizzando un territorio complessivamente, a partire dalla sua popolazione. In questo senso le case popolari vecchie, degradate e fatiscenti sono coacervo di aspettative, bisogni, desideri e relazioni che – senza alcuna mitizzazione solidaristica – formano i propri abitanti “a cavarsela” in un sentimento di ostilità alla politica istituzionale. Ma quella stessa politica si rapporta a questi segmenti cercando di catturarne aspettative in un modello di integrazione del territorio che passa dalla rottura di quei legami sociali verso una prospettiva di ammodernamento fatta di speculazioni immobiliari, indebitamento per accesso a dei consumi di qualità e costante minaccia di espulsione.

Nel nuovo progetto di riqualificazione basato sulla ricostruzione degli appartamenti, si sono attivati delle lotte per vivere meglio, qui e ora. Nuclei familiari in sovraffollamento in alloggi di 38 metri quadri; case fatiscenti mai sistemate dall’azienda gestrice (Apes), minacce di sfratto per “morosi” e decine di alloggi sfitti e sprangati a spese della collettività: il tempo dell’attesa per il cambiamento di questa condizione ha iniziato a rompersi, producendo nuove speranze, una nuova fiducia cadenzata dalle iniziative di lotta per pretendere – subito – “ciò che ci spetta”. Un modello di governo di questa composizione è stato “abbattuto” letteralmente, dando sfogo, espressione e parola ad una nuova cultura politica basata sulla rappresentazione dell’insopportabilità di questa vita “ai margini”. Quest’attivazione si è palesata nel travolgere quei dispositivi che miravano a produrre invidia, competizione, isolamento, frustrazione e che componevano il conflitto orizzontale tra gli stessi abitanti. A suon di occupazioni, presidi permanenti e contestazioni dirette nei confronti dei responsabili istituzionali della propria sofferenza si è sedimentata una nuova soggettività collettiva, profondamente radicata nel proprio territorio, consapevole della propria forza poichè “siamo noi che ci viviamo qui!”. Non l’emarginazione, bensì l’aspettativa tradita (per tutti) di migliorare le proprie condizioni di vita dentro lo sviluppo del “capitale-territorio”, ha costituito il fattore scatenante del conflitto che da quattro anni produce nell’esperienza del quartiere di Sant’ermete, l’anomalia di relazioni sociali altre.

A partire dai risultati conseguiti, misurati sul potere, sul contare e sul valorizzarsi contro le opzioni istituite dalla controparte istituzionale, si è formata una vera e propria ansia collettiva: quella della lotta. Ciò ha a che fare con la ri-costruzione parziale di nuovi valori, nuove misure di ciò che è importante in relazione alle attività con cui decine e decine di abitanti del quartiere vivono. Muta il rapporto con la “disoccupazione”, muta il rapporto con il “consumo” e col “tempo libero”, muta il rapporto col “lavoro”, muta il rapporto con la famiglia e anche coi vicini. Una trasformazione graduale della vita sociale segnata da momenti di forte conflitto che descrive la questione del contropotere non come esercizio statico di “controllo del territorio” bensì come dinamica espansiva di movimentazione virale trasformante la propria “quotidianità” collettiva.
Tutto ciò ha a che fare non solo quindi con l’autogestione dei bisogni, bensì con l’organizzazione sociale dello scontro in rapporto ai centri di potere che possiedono i codici della vita collettiva. Per vivere meglio bisogna pagare meno, zero se possibile. Per farlo dobbiamo coinvolgere i “nostri simili”, la nostra parte. Per essere di più, per vincere, per strappare, per non essere messi all’angolo. Da gesti concreti, si genera un’azione comune fatta di ricerca e di sintesi tra anime diverse che come pallino del proprio vivere, del proprio abitare, ha la direzione del “non stare più fermi”, del muoversi, di pretendere un “risarcimento per tutta la vita di merda che ci hanno costretto a fare”. Individuare le parti in campo, leggere le stratificazioni sconfiggendo la retorica dell’interesse generale e la forza della controparte basata su frantumazione ed individualismo.

In questa storia “antagonista” di quartiere, c’è quindi un’idea differente di città che passa dalla rottura e dalla resistenza a quella attuale, fatta di innovazione, informatizzazione, modernità basata sul prezzo sociale dell’impoverimento delle condizioni di ultimi. Le condizioni generali dell’accumulazione e dello “sviluppo” di una città terziaria come Pisa, privatizzata, infrastrutturata, acculturata, necessitano di approfondire la produzione di cittadini indebitati, frantumati, consumatori di merce scadenti. La reiterata e prolungata negazione del ruolo sociale del “marginalizzato” si dirama dalla pretesa di risposte, dalla ricerca di riscatto contro la de-valorizzazione della propria dignità imposta dall'”alto”, scardinando l’immaginario di rassegnazione e inflazionando la domanda di “esserci”, di partecipare. Lo stritolamento effettivo delle garanzie sociali nei circuiti tecnici della governance, impedisce la mediazione politica in funzione anche di una qualche misera “redistribuzione”. È per questo che gli abitanti dei quartieri che iniziano a lottare direttamente per il proprio legittimo interesse particolare scatenano rapidamente una critica dura e radicale della Politica come macchina di subalternità. Dentro i rapporti materiali fondati su di una nuova mobilitazione sociale, per (e contro) il proprio “territorio”, risalta l’incredibile soggettivazione di chi non si accontenta più e scopre il nuovo\antico meccanismo dell'”unione fa la forza”. È come un perno sociale che “iniziando a girare in senso contrario” alla direzione disciplinante sistemica, produce fratture, crisi e nuove possibilità d’incontro in questo sabotaggio dei livelli bassi dell’articolazione del Comando sulla vita sociale.

Progetto Prendocasa Pisa

 

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